Un conflitto, due fronti


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(Diego Mazzocchini) – I fatti di Bruxelles ci obbligano, di nuovo, ad una riflessione seria e non ideologica. Si è parlato di guerra in atto in Europa, e di guerra si tratta, ma il fronte non è unico; insieme al problema interno europeo, fatto di comunità islamiche che creano cellule jihadiste più o meno collegate, dobbiamo considerare la questione mediorientale, e lo dobbiamo fare in primis. Il conflitto regionale va avanti da tempo e prende sempre più la forma di uno scontro interno al mondo musulmano in cui si affrontano sunniti e sciiti, con i primi che danno vita ai gruppi terroristici foraggiati da paesi che, uniti sotto la bandiera dell’islam sunnita, perseguono interessi regionali chiari e distinti. L’Arabia Saudita è l’attore che più dovrebbe destare attenzione, per la politica di potenza messa in atto nell’area mediorientale e la capacità di diffusione della propria cultura wahabita tramite centri culturali presenti nel mondo arabo come nell’occidente, i quali trovano la strada spianata grazie alla enorme mole economica in grado di muovere.

L’area del Golfo ingloba altri protagonisti degli sconvolgimenti arabi, il Quatar e gli EAU, che si trovano uno contro l’altro all’interno del fondamentale fronte libico, con il primo sostenitore e finanziatore del governo non riconosciuto di Tripoli e il secondo sponsor delle forze di Tobruk. E poi la Turchia, altro attore di primo piano ed in evoluzione; il disegno neo imperiale di Erdogan si va a scontrare con i nemici di sempre e nemici nuovi, i curdi del sud-est coinvolti attivamente nella guerra siriana, il regime di Assad contro cui sono insorti anche i turcomanni siriani, la Russia di Putin che ha mostrato i muscoli in Medio Oriente. Ma la Turchia possiede un’arma che la rende difficilmente attaccabile, il potere di ricatto nei confronti dell’Europa: migranti in cambio di denaro e stabilità, oltre la presenza nel circuito NATO.

L’universo sciita gravita invece intorno all’Iran, potenza regionale tornata alla ribalta dopo l’accordo internazionale sul nucleare e lo stop delle sanzioni economiche imposte. Con l’Iran l’occidente è tornato a fare affari, ma ciò non ha suscitato le simpatie dell’estremismo sunnita, che si è sentito tradito dalla potenze occidentali e subito si è mostrato pronto a ribadire il proprio primato. Gli Hezbollah, che fanno comunque riferimento all’Iran, si sono rivelati una risorsa preziosa nella guerra siriana a fianco del presidente Assad, ma devono sempre mantenere un’attenzione elevata nei confini interni libanesi e non solo, vista la recente classificazione a gruppo terroristico da parte della Lega Araba. Infine la Siria di Assad, che vede la minoranza alauita (setta sciita), fedele al presidente, lottare per la propria sopravvivenza di fronte all’avanzata dei gruppi islamici sunniti (non solo Daesh). Gli alauiti sono indissolubilmente legati alla famiglia presidenziale, espressione anch’essa della setta sciita, data la loro rara condizione di minoranza al potere.

Ecco che lo scongelamento dell’area araba ha portato alla luce l’esistenza di un conflitto interno al mondo musulmano, che si aggrava nel momento in cui si tinge di interessi; l’appartenenza ad una corrente è dettata molto spesso da motivi di sopravvivenza, le componenti che più riescono ad incidere socialmente in un’area, spesso, diventano le forze predominanti e il terrore del predominio dell’altro fa scattare meccanismi di autodifesa, belligeranti. Questo vale chiaramente per le aree di stretta convivenza, come il Libano.

Per fare il punto sull’Europa si dovrebbe partire, più o meno, da qui, capire l’importanza che ha il fare proselitismo, mostrarsi invincibili in ogni area del mondo, infondere paura nell’altro. Se vuoi vincere un conflitto interno devi portare più componenti possibili dalla tua parte, è una guerra muscolare e i muscoli si mostrano lasciando gli europei disarmati di fronte alla violenza e attaccando rumorosamente il Mali, la Costa d’Avorio, la Somalia e tutta la zona del Sahel. Questi attentati sono il modo migliore per dimostrare la propria superiorità agli altri gruppi terroristi (da ricordare lo scontro Daesh-Al-Quaeda) e alle altre correnti religiose.

Questa è la strategia, quanto sia semplice il reclutamento di martiri in alcuni paesi europei è sotto gli occhi di tutti; banlieu, interi quartieri islamici, condizioni di degrado sociale e un’integrazione mai avvenuta che porta i ragazzi di seconda o terza generazione a identificarsi di più con un musulmano siriano che con un connazionale europeo. Ed è qui che si inserisce il discorso identitario, la necessità di creare nelle città e negli Stati meccanismi multiculturali volti a smorzare le identità che tendono a radicalizzarsi. È uno schema di logica e profondo realismo, nient’affatto dettato dal buonismo umanitario che sembra scandalizzare il mondo contemporaneo.

Questo conflitto, combattuto su due fronti, richiede tempi decisionali brevi, richiede una leadership politica di alto livello, richiede una visione dei propri obbiettivi di politica estera ben chiara e a lungo termine, richiede purtroppo elementi che la politica europea non ha mostrato di possedere.

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