Erdogan e il regalo di Allah: introspezione di un golpe fallito


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di Bruno Scapini 

Occorre una buona dose di coraggio – ma forse più di spregiudicatezza – per affermare che il fallito “golpe” in Turchia abbia “salvato” la democrazia di questo Paese ! Qualcuno in Europa si spinge anche a dichiarare come sia andata meglio così perché in fondo restando Erdogan al potere è la stabilità politica della Turchia che ne avrebbe tratto vantaggio.

Nulla di più falso e di ideologicamente perplesso. Per comprendere le ragioni del tentato golpe è necessario collocare il fatto nella storia della Turchia moderna per poi interpretarlo alla luce del recente corso politico avviato dall’attuale Presidente Erdogan sia all’interno del Paese, sia sul piano internazionale.

Se il punto di riferimento basico della costituzione storica della Turchia post-ottomana è sempre stato l’elemento della laicità dello Stato, nei termini ideati ed imposti dal Padre fondatore Kemal Ataturk – anche forzatamente in fondo per aver sradicato quell ‘anima islamica primitiva della società ottomana – è comprensibile come ogni sviamento o tentativo di divergere da questa linea di fondo venga percepito come un pericolo, una minaccia a quella costituzione divenuta ormai identità stessa della nuova Nazione turca. Garante di questo ordinamento statuale, ispirato e fondato sulla laicità, è stata, e lo è tuttora, la classe militare, divenuta progressivamente la componente più forte della società e arbitro dei destini di questo Paese.

Erdogan, al pari di altri suoi predecessori, non ha voluto evidentemente ascoltare la “voce” di Ataturk, e, lasciatosi assorbire dalle suadenti tentazioni del potere ha avviato nel corso degli ultimi anni – nell’intento di assicurarsi un più vasto sostegno da parte della componente islamista del Paese – una politica conservatrice tesa a favorire l’affrancamento del turco musulmano dai “lacci” della laicità. Una politica condotta con certa determinazione che ha anche – ed inevitabilmente – implicato un progressivo rafforzamento del potere nelle mani del sedicente “Sultano” a danno dei diritti umani, delle libertà civiche e della stessa democrazia ora messa duramente alla prova da un progetto di riforme istituzionali volto alla attuazione di un regime presidenziale accentrato. La spinta a realizzare il dichiarato programma è venuta poi recentemente proprio dalla nomina a Primo Ministro di Binali Yildirim fedelissimo del Presidente e suo abilissimo sostenitore.

Come spiegare, dunque, il mancato “golpe” del 16 luglio ?

Nella generale congerie di notizie spesso non lineari e ancor più spesso contraddittorie che ci provengono sull’episodio, non è certamente facile trovare il bandolo della matassa. Ma indipendentemente dalle dichiarazioni di esponenti politici sulla natura fittizia o meno del “golpe”, e a prescindere dalle valutazioni che gli opinionisti del momento si affrettano a riversare su media e quotidiani, alcuni punti fermi si possono individuare non nelle parole, bensi’ nei fatti e nella concretezza degli eventi.

Difficile ancora avanzare ipotesi su presunte collaborazioni dall’estero per la messa in atto del tentato “colpo di mano “. Ma la sua matrice militare di secondo rango, gli errori tattici commessi dai golpisti stessi – quasi fossero dilettanti assoldati per una scena da film e non professionisti – indurrebbero a pensare più ad una “anomalia” istituzionale che ad un vero e proprio “colpo di stato”. Del resto la Turchia non è nuova a consimili strumenti di riordino costituzionale e i passati “golpe” del 1960, del 1971, del 1980 e del 1997 hanno dimostrato che il ruolo della componente militare è tale che è stato sufficiente nella maggior parte dei casi il solo “invito” rivolto al politico di turno dal Comandante in Capo per indurlo a miti consigli e a rassegnare le dimissioni.

In ogni caso, la pressione che Erdogan sta negli ultimi tempi esercitando sulle istituzioni nazionali per allinearle sulle proprie posizioni in favore di un presidenzialismo verticalmente gerarchizzato e di un maggior riconoscimento delle istanze islamiche del Paese, spiegherebbe il grande vantaggio che egli trarra’ da questo mancato “golpe” per il proseguimento del suo progetto riformistico. Un evento, dunque, questo che Erdogan stesso ha definito un “regalo di Allah” offrendogli occasione ora di serrare il passo verso una vera e propria epurazione del sistema istituzionale per asservirlo al suo volere. Primario obiettivo in questo scenario saranno indubbiamente le forze armate, la sede centrale del potere, luogo depositario del messaggio di Ataturk per uno Stato laico e ostacolo effettivo al programma presidenziale di restringere la secolarizzazione del Paese e tornare alla sua natura primigenia di società islamica. I prodromi di questa prospettiva sono già del resto evidenti dall’indomani del fallito “golpe”: maggiore controllo sui media, rimozione di 9 membri della Corte Costituzionale e di un imprecisato numero di altri giudici ordinari. Ma la svolta sarà poi più marcatamente realizzata proprio fra gli alti ranghi delle forze armate, che certamente subiranno la riforma più radicale nell’intento di soggiogarle snaturandone il ruolo tradizionale di “garante” della laicità e piegarle, attraverso la rimozione dei vertici e una reimpostazione culturale, alle nuove istanze presidenziali.

Le ragioni per questa progettata trasformazione del Paese potremmo individuarle da un lato nella delusione di Ankara per essere in fondo rifiutata dall’Europa che, maldestramente, ha sempre cercato di illuderla sulla possibilità di un più stretto associazionismo con Bruxelles, ma dall’altro nel più ridotto ruolo strategico svolto oggi dalla Turchia a seguito dei profondi cambiamenti subiti dalle dinamiche politiche internazionali a riguardo sopratutto del Medio Oriente e dell’area mediterranea. Circostanza, quest’ultima, che induce inevitabilmente Ankara a spingersi in una politica estera aggressiva, da protagonista sconsolato, pur consapevole del suo collegamento con l’ Occidente e, più specificamente, con la NATO.

Ma la domanda da porsi in questa prospettiva è fino a che punto proprio l’ Occidente e gli Stati Uniti, in particolare, potranno consentire questo corso politico della Turchia verso un autoritarismo presidenziale e, sopratutto, verso una sempre più accentuata deriva islamica del Paese.

Sappiamo bene che al di là delle demagogiche affermazioni in tema di Diritti Umani, stato di diritto e democrazia, poco importa per

Washington se uno Stato sia più o meno “canaglia” purché ottemperi a certi compiti di strategia politica. Ed Erdogan sembrerebbe confermare – almeno per ora – questa sua fedeltà all’Occidente appoggiando le varie “cause” americane dall’ISIS alla Siria, dall’Arabia Saudita alla Libia. E poco importa per Washington se il Paese sia islamico o laico. La sottigliezza ideologica potrebbe forse più interessare gli europei da secoli abituati al confronto-scontro con l’ Islam che la lontana America. Ma per Washington è invece determinante che il Paese sia “allineato” sulla sua visione politica del momento e la sintonia con l’ Arabia Saudita, noto sostenitore di un certo tipo di ortodossia islamica non scevra da intenzionalità terroristiche, è emblematica di questo pragmatismo “made in USA”.

Dunque, al di là di un serio giro di vite che Erdogan, ringraziando Allah, sicuramente apporterà al già debole sistema democratico del Paese, nulla più si dovrebbe prospettare nel breve periodo sul piano degli equilibri politici dell’area di pertinenza.

Ma molto probabilmente il fallito “golpe” non sarà solo un regalo di Dio per Erdogan, ma anche e forse più, un “dono di Dio” per l’ Europa che dovrà trarre da questo evento il dovuto insegnamento per guardare alla Turchia sì come ad un alleato, ma sopratutto come ad un Paese dalle profonde ambiguità e instabilità che potranno radicalizzarsi in futuro causando l’accentuazione di un pericoloso scollamento tra istituzioni e società, tra ruolo imposto e realtà di certo foriero di conflittualità interne – e sono tante – di cui l’ Europa di sicuro in questo momento non sente assolutamente il bisogno.

 

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