La sconfitta degli Stati Uniti in Siria


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(Alessandro Aramu) – Chiamiamola con il suo vero nome: sconfitta. E’ ciò che stanno subendo gli Stati Uniti non soltanto in Siria. Nonostante la determinazione del Presidente Obama di voler ricostruire buone relazioni con una buona parte del mondo musulmano, il fallimento è evidente. Ancora oggi la Casa Bianca descrive gli scenari geopolitici nella sponda sud del Mediterraneo, in Medio e Vicino Oriente più come un desiderio – ovvero come dovrebbero essere le cose – che per la realtà di una situazione che appare sempre più drammatica, proprio  a causa delle pesanti responsabilità politiche di Barack Obama e del suo entourage.

In Siria, siamo passati ormai dalla cronaca alla storia, gli Stati Uniti hanno utilizzato i radicalismi – armati e non – in funzione anti Assad. Quando quei fenomeni si sono trasformati in organizzazioni terroristiche con ambizioni statutali e mire espansionistiche sovra nazionali era troppo tardi. E’ stato in quel momento, a guerra iniziata già da qualche anno, che l’ISIS ha occupato vaste porzioni di territorio siriano e iracheno e si è auto proclamarsi Stato Islamico. Era tardi non solo perché quel tipo di terrorismo è sbarcato in Europa e ha mostrato tutta la sua ferocia in una serie di attentati eclatanti in paesi che fino a quel momento erano ritenuti quasi sicuri, ma perché esso ha fatto proliferare una serie di sigle radicali che hanno devastato la Siria e hanno animato un’ideologia che si autoalimenta con l’odio e la violenza. Gli attentati fuori dall’Europa sono figli proprio di questa situazione.

Gli Stati Uniti hanno perso la loro guerra perché hanno avvallato gli ingenti finanziamenti che i suoi alleati – Turchia e Arabia Saudita su tutti – hanno riversato nelle casse dei veri nemici dell’Occidente, i terroristi dello Stato Islamico che una seria azione militare avrebbe potuto sconfiggere in pochi mesi. Invece, Obama ha preferito far combattere, da solo con l’aiuto soltanto dei suoi alleati sciiti, l’esercito siriano con la convinzione che prima o poi i militari di Damasco sarebbero capitolati. Il caso di Palmira è eclatante: nessuno ha mosso un dito per salvare il sito patrimonio dell’UNESCO, soltanto le truppe siriane aiutate dai russi hanno consentito che quel gioiello della storia e dell’archeologia non venisse definitivamente cancellato. Quel risultato è stato raggiunto al prezzo di molte vite umane. Siriani e russi combattevano a Palmira e tutto il mondo stava a guardare, salvo poi esultare il giorno della liberazione.

Caduto Assad, gli Stati Uniti sarebbero entrati in campo in prima persona, ridimensionando l’ISIS militarmente e trovando un presidente fantoccio sunnita appoggiato da Turchia e monarchie del Golfo. Per preparare la successione, la Casa Bianca, attraverso la CIA, ha finanziato e armato i cosiddetti ribelli moderati, quell’Esercito Siriano Libero che nelle intenzioni di Obama sarebbe dovuto essere il nuovo corpo militare della Siria liberata. Niente di tutto questo è accaduto. Anche perché la debolezza politica statunitense accompagnata da scelte scellerate che hanno rinvigorito i vari gruppi jihadisti – come i qaedisti del fronte Jabhat al Nusra, nel frattempo divenuti Jabhat Fatah al-Sham – hanno agevolato l’entrata in scena della Federazione Russa, scombussolando i piani di Washington e impedendo la capitolazione di Assad.

L’intervento militare russo – legittimo secondo il diritto internazionale in quanto richiesto dalla Siria, ovvero da uno stato sovrano –  ha avuto due effetti: ha ribaltato le sorti della guerra, con il governo siriano che ha recuperato ampie porzioni di territorio, e ha indebolito in modo decisivo i terroristi, rivelando la finzione che il fenomeno si potesse limitare allo Stato Islamico. La stessa battaglia di Aleppo, con feroci combattimenti che colpiscono anche la popolazione civile, esiste perché quella parte della città è ostaggio proprio dei miliziani jihadisti che utilizzano donne e bambini come scudi umani e si rifiutano di lasciare le loro postazioni. Questo accade ad Aleppo come in altri luoghi della Siria dove la rivoluzione è soltanto una formuletta magica che dimentica come nel paese l’opposizione armata sia monopolizzata dal radicalismo salafita e dall’ideologia wahabita.

La sconfitta degli Stati Uniti è molto più ampia perché, come accennato, riguarda anche altri paesi. L’Iran dopo la chiusura del dossier nucleare respinge l’ambizione egemonica degli Stati Uniti. Baghdad ha rifiutato di accettare la politica di Washington, impedendo che in Iraq potesse commettere altri disastri. L’intervento militare in Afghanistan non ha portato il risultato desiderato. La Turchia non vuole essere un vassallo obbediente della NATO e in Siria fa ciò che vuole, bombardando persino i curdi protetti da Washington. Il partner più potente del mondo arabo, l’Arabia Saudita, non nasconde la sua delusione per la politica estera in Medio Oriente dell’amministrazione Obama. Per non parlare della Libia e dell’Egitto dove gli Stati Uniti hanno del tutto perso il controllo della situazione.

Il Presidente americano, che nel suo primo mandato è stato vittima delle azioni scriteriate del suo segretario di Stato, Hillary Clinton, si è sempre rifiutato di parlare di jihadismo e di guerre alimentate dalla rabbia dell’estremismo islamico nella regione.  Lo ha fatto, forse, anche per non alimentare internamente un odio generalizzato nei confronti dell’Islam.

L’evidenza della sconfitta di Obama è data anche da un altro elemento, non giudicato con sufficiente attenzione. A settembre, nel corso dell’intervento nel Palazzo di vetro, ha dovuto pronunciare l’impronunciabile, riconoscendo che il realismo impone la necessità di raggiungere un compromesso  sul fatto che la transizione politica in Siria sia gestita dal presidente Bashar al-Assad. Un appello alla moderazione giunto dopo oltre quattro anni la prima richiesta di dimissioni del leader siriano, rinnovata due anni dopo con l’attacco chimico nella periferia di Damasco,  attribuito strumentalmente al governo di Damasco con il pretesto di avviare un’operazione militare in Siria. Quell’attacco chimico, in realtà, era stato portato avanti dai ribelli proprio allo scopo di scatenare un intervento armato americano e far cadere cosi Assad.

Contro la politica sconclusionata di Barack Obama, si è schierata anche la rivista bimestrale statunitense The American Interest, secondo la quale le scelte del presidente hanno consentito alla Russia di occupare nuovamente un posto importante nella politica mediorientale e di aggiustare le relazioni con la Turchia. Secondo la pubblicazione, la politica di Obama sulla Siria danneggia gli interessi nazionali. Mosca ha approfittato dell’indecisione di Washington e alla fine ha stabilito vantaggiosi legami commerciali con l’Iran e la Turchia. In questo modo, scrive la rivista, la Russia ha piantato un cuneo nella Nato allontanando Ankara dall’Occidente e dagli Usa in particolare.

 

Twitter@AleAramu

Alessandro Aramu (1970). Giornalista professionista, direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). Per il quotidiano La Stampa ha pubblicato il reportage “All’ombra del muro di Porta di Fatima”, sulla nuova barriera che divide Libano e IsraleÈ coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013), Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014). E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. E’ responsabile delle relazioni internazionali della Federazione Assadakah Italia  – Centro Italo Arabo e del Mediterraneo  e Presidente del Coordinamento Nazionale per la Pace in Siria.

L’INTERVISTA ALLA TV SIRIANA

 

 

 

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