Populismo e femminismo rivoluzionario latino-americano


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di Maddalena Celano 

Sinistra e mistificazioni etnocentriche e sessiste (parte 2)

In America Latina, Africa e gran parte del sud-est asiatico, i progressi per i diritti delle donne sembrano regrediti a causa della devastazione operata da programmi di aggiustamento strutturali. Vi è crescente preoccupazione per la convergenza tra certe forme di femminismo e gli ordini del giorno del capitalismo neoliberista. Hester Eisenstein fu tra i primi ad analizzare ciò che ha descritto come il ‘legame pericoloso’ tra capitalismo contemporaneo e un femminismo liberale, ormai dominante. La femminista Nancy Fraser suggerisce che la seconda ondata di femminismo ha ‘involontariamente’ fornito un ingrediente chiave per il nuovo spirito del capitalismo neoliberista, mettendo da parte le questioni dell’uguaglianza materiale e la redistribuzione politica-economica a favore delle lotte per il riconoscimento delle identità e delle differenze.  Questo contributo si propone di esaminare le problematiche inerenti tra femminismo e neoliberalismo, prendendo come esempio le esperienze specifiche del femminismo latinoamericano come oggetto d’indagine. Lo svolgersi dello sviluppo capitalistico e la diffusione delle idee femministe non sono processi evidenti i cui risultati possono essere dati per scontati, come implicitamente assunto nel dibattito finora.

Il saggio di Nancy Fraser “Femminismo, Capitalismo e l’astuzia della storia” si basa su una periodizzazione triplice: la prima l’era post II° guerra mondiale basata su un forte intervento dello Stato in economia, un’epoca neoliberale che parte dal 1980 al 2008 e, si spera, una nuova epoca post-crisi, periodo di rinnovata radicalizzazione. Questo schema, si rileva e si applica non solo agli stati basati sul welfare fordista dei paesi OCSE, ma anche agli ex-stati coloniali,  gli stati “in via di sviluppo”, ciò che fu chiamato Terzo Mondo, che mirava a far ripartire la crescita economica nazionale mediante importazione di formule politiche dall’ Ovest o dall’ Est, attraverso investimenti infrastrutturali, nazionalizzazione delle industrie chiave e una spesa pubblica per l’istruzione. Fraser sostiene che la seconda ondata del femminismo, sia emersa dalla nuova sinistra antimperialista, dal globale fermento anti-guerra del Vietnam alla fine degli anni Sessanta, come sfida al mondo dominato dagli uomini in chiave antrocentrica. Durante questo primo periodo, il movimento femminista analizza quattro dimensioni interconnesse dell’ordine sociale dominante: il suo ‘economicismo’, o cecità sulle forme non-distributive di ingiustizia (famiglia, sessualità, razza); il  suo androcentrismo, strutturato dalla divisione di genere del lavoro, il salario famigliare monopolizzato dai maschi e la svalorizzazione dei lavori di cura e assistenziali, la gratuità del lavoro domestico imposto a tutte le donne. Attraverso tutte queste dimensioni, Fraser sostiene che la seconda ondata del femminismo ha combattuto per una trasformazione sistemica che sarebbe al tempo stesso economica, culturale e politica; essa non ha cercato semplicemente di sostituire il mono-salario familiare con una famiglia di due-lavoratori-salariati, ma di rivalutare la dimensione della cura che va posta su una base egualitaria; essa non voleva liberare i mercati dal controllo statale, ma democratizzare lo stato e il potere economico.

Il motivo principale per cui la seconda ondata di femminismo, tuttavia, ha continuato a prosperare nell’era del capitalismo neoliberale dal 1980 in poi, è che questi obiettivi sono stati ‘ri-espressi’ e “ri-formulati” in diversa chiave. La critica del femminismo all’economicismo, l’enfasi unilaterale su cultura e identità, disancorata però dall’ anticapitalismo; l’assalto al concetto androcentrico del capofamiglia maschio è stata recuperato dalla ‘nuova economia’, che ha accolto l’occupazione femminile esclusivamente per promuovere la tendenza verso un flessibilità, una forza lavoro a basso salario. Il neoliberismo ha normalizzato la famiglia con due-lavoratori in cui, però, è sempre la donna ad assumerne un ruolo subordinato (salari inferiori, lavori precari o part-time indotto, licenziamento forzato in caso di maternità e obbligo ad elargire cure domestiche gratuite). Il femminismo, un tempo francamente emancipazionista, sotto il neoliberismo, fu oggetto di mistificazione e divenne suscettibile a soddisfare le esigenze di legittimazione del capitalismo.

Com’è applicabile questo modello per l’America Latina? In America Latina, la situazione si è sviluppata con modalità radicalmente differenti dagli esempi citati, dall’ esempio Europeo o Statunitense. Un autentico giornalista e intellettuale dovrebbe coglierne gli aspetti più indicativi senza pregiudizi-ideologici, cosa che raramente accade.  Qui (in America Latina), lo stato capitalista degli anni settanta non era costituito da una burocrazia depoliticizzata ma da dittature reazionarie di tipo militare, che Fraser descrive come pesantemente sessiste, finalizzate all’eliminazione fisica dell’ opposizione di sinistra, difendere i rapporti di proprietà crudamente disuguali e polarizzare i due generi (maschio dominante e donna, in tutti gli aspetti della vita, subordinata). I movimenti femministi degli anni settanta, in America Latina, sono emersi nel corso di vere e proprie lotte rivoluzionarie contro regimi duramente repressivi, molte femministe erano guerrigliere (spie o cospiratrici) e vivevano in clandestinità: giunte militari reazionarie si impadronirono del potere in Brasile dal 1964, in Bolivia dal 1971, in Uruguay e in Cile dal 1973 e in Argentina dal 1976, istituendo dittature tecnocratiche che hanno usato la tortura, la sparizioni e gli omicidi per eliminare i membri della sinistra (tra cui anche diverse femministe), distruggendo  sindacati e smobilitare la società civile. Nell’America Latina lo sviluppismo delle importazioni non fu mai completamente fordista; la famiglia composta dal maschio breadwinner (dispensatore della pagnotta) e dalla femmina casalinga è, in realtà, solo il privilegio di una piccola minoranza di lavoratori qualificati, anche in Argentina, Messico e Venezuela. In contrasto con la realtà familiare del dopoguerra OCSE, la maggioranza delle donne latino-americane lavoravano la terra, lavoravano come domestiche, come serve o braccianti agricole. Esclusivamente le donne delle elite furono liberate dal lavoro domestico dalle loro cameriere (spesso indie o nere). Le donne continuavano a svolgere due lavori, il lavoro salariato fuori di casa (spesso pesante e sotto-pagato) e il lavoro domestico dentro casa (da offrire gratuitamente). E ‘stato il fallimento del modello sviluppista, in assenza di riforme redistribuitive per mitigare la povertà e la disuguaglianza nella regione, esigenza che fu alla base della militanza degli anni sessanta, le dittature militari miravano a schiacciare ogni tentativo di emancipazione femminile. Le dittature militari hanno promosso la retorica della brava casalinga, disinteressata al sociale e alla politica, tutta casa e chiesa. Si trattava, in realtà, di un’utopia perseguibile esclusivamente dalle donne più ricche, poiché nessuna donna “del popolo” poteva permettersi la serena “casalinghitudine”.

I movimenti femministi che sono emersi nella regione latino-americana non erano semplicemente imitazioni delle esperienze occidentali; spesso erano invece riconfigurazioni e rimodulazioni di correnti politiche pre-esistenti, socialiste, anarchiche, cattoliche, liberali con lunghe tradizioni di attivismo, di ricerca e interventi culturali che risalgono al XIX secolo.  L’America Latina è naturalmente un’astrazione, la semplificazione di una vasta gamma di esperienze e tendenze sub-regionali. Eppure, mentre i nuovi movimenti sono stati modellati dall’eterogenea composizione sociale e culturale dei diversi paesi, hanno anche sviluppato caratteristiche e dinamiche condivise. Un aspetto importante del femminismo latino-americano viene dai movimenti rivoluzionari sorti negli anni sessanta, in risposta sia alla disuguaglianza economica che agli  interventi imperialisti, con la rivoluzione cubana, senza dubbio, come epicentro-ispiratore. Questi gruppi hanno reclutato una nuova generazione di donne molto istruite, che non si accontentarono di fare da inservienti o le amanti dei rivoluzionari maschi. Mentre le donne sono rimaste minoranza come membri formali dei partiti comunisti e di altre organizzazioni militanti, erano comunque coinvolte in una vasta gamma di attività. Queste giovani militanti della sinistra rivoluzionaria diventarono “le femministe di fuoco degli anni ‘70”, spesso impegnate in una ‘doppia militanza’, attive sia nei partiti di sinistra che nei gruppi di donne.

Ma forse altrettanto importante, nel lungo periodo, fu la recrudescenza dell’attivismo cattolico che promosse varie forme di “populismo-progressista” o “di-sinistra”. Tutti gli intellettuali insistono su una lettura laica dell’attivismo femminista, ma la storia della mobilitazione sociale del Continente rende chiaro che sia il pensiero cattolico e la sua pratica sono stati rilevanti dalla fine degli anni cinquanta in poi. Quest’aspetto prese la sua forma più radicale nella Teologia della Liberazione, che ha influenzato una nuova generazione di laici cattolici, così come giovani suore e preti. Nella Conferenza  Episcopale di Medellín del 1998 si parlò di educazione popolare come strumento per il cambiamento e ‘presa di coscienza’ come strumento di liberazione, che portò ‘il risveglio e l’organizzazione dei settori popolari della società’ per realizzare progetti sociali. Molto più che in Europa o in Nord America, l’ agitazione femminista in America Latina, durante questo periodo, fu caratterizzata dall’integrazione di intellettuali e attivisti della classe media in lotta per i diritti fondamentali e l’uguaglianza, sotto regimi repressivi. Le femministe socialiste e radicali sono state raggiunte da femministe popolari o da attiviste del “populismo-progressista” (attivo in Argentina, Venezuela ed Ecuador), dalle donne della classe operaia nelle chiese o nelle associazioni di quartiere, organizzandosi contro le dittature.

L’alfabetizzazione e la pedagogia dell’auto-emancipazione popolare dell’educatore brasiliano Paulo Freire giocò un ruolo centrale nel lavoro della solidarietà femminista latino-americana. Le metodologie dell’educazione popolare critica sono state adattate da attiviste femministe per includere temi come la sessualità delle donne, il diritto di famiglia, le relazioni tra genitori e figli, le relazioni di coppia, il lavoro educativo delle donne nelle aree urbane rurali e povere. Infatti, le tecniche pedagogiche di Freire sarebbero diventate lingua franca per i progetti di sviluppo di genere intraprese da ONG femministe negli anni ottanta; continuando a essere utilizzati in tutta la regione per raggiungere le donne nelle zone rurali, comprese quelle delle comunità indigene. Nel 1981 le femministe latinoamericane istituirono una rete a livello continentale per l’educazione popolare delle donne, REPEM (Red de Educación Popular Entre Mujeres de América Latina y el Caribe), impegnate per la promozione sociale, politica ed economica delle donne attraverso la pedagogia critica.

Fraser sostiene che la divisione di genere del lavoro, la liberazione delle donne dal lavoro di cura gratuito e imposto, era l’obiettivo centrale delle femministe, da Nord a Sud. L’obiettivo è di raggiungere un riconoscimento sociale ed economico del lavoro domestico, qualificarlo, renderlo “sociale” e produttivo. Così nacquero le cuoche di quartiere, gli asili rurali, le lavanderie popolari: il lavoro domestico è, finalmente, nei centri rurali gestiti da femministe, socialmente-riconosciuto e fonte di sostentamento economico per numerose donne.  Forse l’idea più importante per il femminismo latinoamericano, però, fu il concetto di autonomia personale, sia materiale che psicologica.

L’autonomia è un concetto cruciale, sia nei laboratori volti a promuovere la coscienza femminista che l’auto-sviluppo tra i poveri della classe operaia. In tutto il continente, negli anni settanta e ottanta, nei dibattiti e nei raduni nazionali e regionali, nacque la Encuentros Feministas Latinoamericanos y del Caribe, che si è riunito regolarmente dal 1981 in poi. Il discorso elaborato è centrato sulla chiamata delle donne a diventare attori autonomi a pieno titolo, ‘esseri per se stesse’, liberate dalle forme della femminilità centrate sulla maternità che le riduce a ‘esseri per gli altri’ e le blocca a un ruolo subordinato. Queste posizioni sono state associate a un nuovo tipo di militanza femminista impegnata, un militancia comprometida, che è emersa dell’attivismo femminista delle donne di sinistra. La militanza si basò sulla critica della maternità-imposta come uno dei principali ostacoli per le donne, l’enfasi sull’autonomia, sulla creazione di un proprio spazio, non solo fisico, ma anche emotivo e psicologico, rompe con la tradizionale femminilità, tendenza avanzata dalle giovani, femministe con un’istruzione universitaria, che andavano contro le posizioni maternaliste di gruppi Chiesa-lED, che spesso mobilitano le donne esclusivamente come madri. Per molte donne nere e indigene, purtroppo, la maternità continuerà a costituire uno spazio importante nella vita, anche se spesso è imposta o vissuta in condizioni non ottimali se non proprio degradanti. Le donne nere e indie reggono da sole l’intero peso economico delle famiglie, oltre il peso emotivo e affettivo. Molto frequenti sono, in America Latina, i casi in cui giovani madri sono abbandonate da compagni e mariti e lasciate sole (senza supporto economico, sociale e/o maritale) nell’affrontare la maternità tra mille difficoltà.

Inevitabilmente, questo rischia di riprodurre disuguaglianze strutturali di classe e razza, e conflitti tra i vari filoni del femminismo, così come il tentativi di rendere visibile il razzismo e le esclusioni di classe. Nel 1983 nell’ Encuentro Feminista a Lima, le donne nere e indigene proposero un workshop sul razzismo da includere in tutti i Encuentros successivi. (2.continua)

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