Gli errori dell’Occidente: Iraq e Libia, due casi esemplari


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di Antonello Cabras*

 Non occorre soffermarsi troppo sulle scelte che il cosiddetto mondo sviluppato occidentale ha fatto negli ultimi quindici anni nel nord Africa e nel Medio e Vicino Oriente. Sono scelte tristemente note e ben documentate. Dall’11 settembre in poi è stata commessa una serie impressionante di errori. Il più clamoroso è stato, senz’altro, l’intervento in Libia sulla scia della Gran Bretagna e della Francia che avrebbero dovuto risolvere non si sa quali problemi ma che, alla fine, non ne hanno risolto neanche uno. Anzi, una parte non secondaria di alcune situazioni di disagio che vivono oggi i paesi confinanti con la Libia è stata prodotta proprio da questo errore.

C’è un complesso di ragioni che ha determinato questa situazione. Intanto, la maggior parte delle scelte sono state determinate da chi comandava. Noi siamo abituati a pensare che chi comanda è chi ha il potere economico, ma il potere economico separato da una supremazia militare non vale molto, anzi molti paesi che hanno vissuto un declino economico, i cosiddetti paesi industrializzati, hanno continuato ad esercitare nel mondo lo stesso potere di prima perché potevano vantare una supremazia militare. Gli Stati Uniti sono tra questi. Infatti sono sempre meno una potenza economica ma hanno mantenuto intatta la supremazia militare.

Quando si parla di primavere arabe, si fanno risalire storicamente alla Tunisia. Ma come si fa a mettere la Tunisia sullo stesso piano del Marocco, della Libia o dell’Egitto? Sono paesi diversi per dimensioni, storia e cultura. Prendiamo l’Egitto, il più grande paese dell’area mediterranea per popolazione, dove c’è una storia completamente diversa da quella, ad esempio, della Tunisia, che era considerata, fino a poco tempo fa, il paese più in sintonia con l’Europa. L’errore è stato quello di considerare questi paesi allo stesso modo. Saddam Hussein come Mubarak o come Gheddafi, senza alcuna differenza nell’approccio e nell’intervento. Soltanto alla fine si è compreso che non si poteva agire in Iraq come in Libia o in Egitto. Quando lo si è fatto, era troppo tardi. Successivamente si è cercato di dare una spiegazione di carattere religioso ai conflitti arabi, per cui i sunniti erano necessariamente contro gli sciiti. Erdogan però ci spiega che non è così e, in parte, ce lo spiega anche il presidente egiziano, il generale al Sisi. Quindi, dovremmo essere più analitici e metterci dall’altra parte della barricata, cercando di capire perché questi fenomeni si determinano.

Ovviamente, dopo l’attacco alle Torri Gemelle la reazione del mondo è stata una reazione giustificata e anche lì sono stati commessi degli errori: ci siamo inventati le armi chimiche di Saddam Hussein ed è stato fatto l’intervento in Iraq. Poi si scoprì che le armi chimiche erano un pretesto e, quindi, si è deciso che le ragioni per condurre un intervento armato in quel paese era l’esportazione della democrazia. L’Iraq sta tutt’oggi soffrendo per quell’intervento militare. Abbiamo esportato forse la democrazia? Da quello che si vede direi proprio di no.

L’osservazione che si può fare è che sia Saddam Hussein che Gheddafi erano dittatori. Prima di dare giudizi sommari bisogna mettersi dall’altra parte e capire quali sono i processi che portano a determinate situazioni ed equilibri. Questi due esempi, Iraq e Libia, non sono due episodi irrilevanti e indifferenti rispetto a ciò che sta succedendo ora.

Nel 1996, il governo italiano aprì una linea di relazione con l’Iran che sbloccò una situazione di isolamento nella quale questo paese si trovava. Un grande paese dove si vota per scegliere il governo, sia chiaro. E’ vero che è presente un’autorità religiosa che ha un potere anche nel campo temporale, ma i cittadini votano. In seguito ad alcune vicende, l’Iran è tornato al suo isolamento, ma nella fase finale dell’amministrazione americana, con Barack Obama, si è capito che con questo paese si doveva trovare un punto di mediazione. Putin, che anni fa ha bloccato l’intervento in Iran, occupa una posizione centrale. È impossibile che la Turchia sia diventata amica dell’Iran e contemporaneamente sia anche amica di Putin, soprattutto considerando i rapporti che ci sono stati – e vi sono ancora – tra Mosca e Teheran che non sono irrilevanti rispetto a quanto è accaduto in Siria.

In questo momento le alleanze fra gli Stati sono figlie di relazioni costruite su strutture culturali antiche in cui i paesi hanno difficoltà a parlare tra di loro perché c’è tutta una storia che li ha tenuti lontani. I governi vivono del consenso dei cittadini e questo è ciò che noi dobbiamo considerare. In Italia, fino a qualche anno fa, la politica estera non interessava a nessuno. Da qualche tempo, la politica estera è complessa, seria e deve essere molto moderata perché ci si deve mettere nei panni degli altri. Quando ci sono relazioni di questo livello, la situazione non si può risolvere con una votazione, soprattutto quando dietro ci sono conflitti e una storia che ha caratterizzato i rapporti.

Nell’intervento in Libia, ad esempio, il presidente Berlusconi era contrario e mise a disposizione gli aeroporti per ridurre al minimo l’impegno e per non stare fuori dal gruppo. Non bisogna dimenticarlo.

Un’ultima considerazione su Trump, la cui elezione a presidente degli Stati Uniti d’America è stata più volte richiamata in questo meeting. Trump è arrivato alla Casa Bianca grazie a quegli stati che hanno sostenuto la sua posizione contro il Messico. E’ certamente un presidente legittimo e nel pieno delle sue funzioni ma una riflessione è d’obbligo: come si può pensare che un cittadino americano dell’Ohio abbia un peso nel voto che è diverso rispetto a quello di un cittadino della California o di New York nel tempo della globalizzazione e nel tempo che caratterizza la vita di oggi. Si tratta di una cosa che, francamente, ha fatto il suo tempo.

 

Intervento al V° Meeting Internazionale delle Politiche del Mediterraneo (Cagliari, 1 febbraio 2017)

 

 

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