Macron punta su Haftar e sfila all’Italia l’iniziativa diplomatica sulla Libia


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di Francesco Gori

La nuova iniziativa francese sulla Libia rivela, se mai ce ne fosse stato bisogno, la fragilità della politica estera dell’Unione Europea e della Comunità internazionale e lo scarso peso che l’Italia continua ad avere nei rapporti con la sponda sud del Mediterraneo. Al di là delle dichiarazioni di facciata, è evidente l’irritazione del governo italiano, e in primis del premier Gentiloni, per la decisione del presidente francese Emmanuel Macron di ricevere il primo ministro del governo di Tripoli, Fayez Al Sarraj, e il generale Khalifa Haftar. L’idea di mettere assieme, l’uno di fronte all’altro, i due uomini forti della Libia per la creazione di un governo unitario serve da un lato a legittimare (e a rafforzare) il generale Haftar (sostenuto da Russia, Egitto ed Emirati Arabi) e dall’altro a rinvigorire la posizione della Francia in un paese dove ha enormi interessi economici, con le sue aziende impegnate a strappare contratti miliardari per l’estrazione e la raffinazione dei prodotti petroliferi.

Macron, come già aveva fatto il suo predecessore Hollande, ha capito che l’unico a poter garantire questa rendita economica è il generale Haftar e con questa iniziativa tenta di accreditarlo a livello internazionale, riconoscendogli anche il merito di aver combattuto (e in parte sconfitto) il terrorismo jihadista in Libia.

Nel comunicato ufficiale dell’Eliseo si legge che la Francia vuole dare “il suo contributo agli sforzi per costruire un compromesso politico sotto l’egida delle Nazioni Unite, che riunisca su una base inclusiva l’insieme dei differenti attori libici”. Nel momento di maggiore pressione del fenomeno migratorio sulle coste italiane, la Francia sfila all’Italia un’iniziativa diplomatica e politica che il nostro paese avrebbe dovuto assumere da tempo, rivendicando spazi di autonomia e di manovra che purtroppo l’Italia non ha da tempo nel bacino del Mediterraneo. Lo stesso è accaduto in Siria dove Berlusconi prima, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni dopo, non hanno fatto che certificare quanto deciso da Washington e Bruxelles, contribuendo, con l’inerzia, a peggiorare il disastro umanitario in un paese che da oltre sei anni è devastato dalla guerra e dal terrorismo. Detto questo, la Francia, così come è accaduto con l’intervento militare che portò alla destituzione e alla morte di Gheddafi, ha fatto ciò che sa fare meglio: curare i propri interessi incurante degli accordi internazionali e dei rapporti di buon vicinato.

Il comandante dell’esercito nazionale libico si presenterà davanti al presidente francese e al fragile primo ministro del governo di Tripoli forte della sua potenza militare. Secondo il quotidiano egiziano Al Ahram, Haftar metterà al centro della questione una serie di questioni molto importanti: 1) volontà di smantellare le milizie di Misurata o Tripoli o inquadrarle in un futuro esercito; 2) cambiare l’accordo di Skhirat togliendo al premier Fayez Al Sarraj la guida delle Forze armate e dichiarare terroristi i Fratelli musulmani che lo appoggiano. Oltre la Fratellanza, secondo Haftar, devono essere considerate formazioni terroriste anche Daesh (l’Isis), Ansar Al Sharia e il Gruppo islamico combattente in Libia (Lifg).

In cima ai “principi nazionali libici” cui tiene il generale c’è quello che “l’esercito libico è l’unico esercito del paese e che non sarà autorizzata alcuna altra potenza parallela armata”. Inoltre c’è il totale rifiuto di qualsiasi ingerenza straniera nella strutturazione dell’esercito”. Si tratta, come si vede, di richieste stringenti, difficilmente derogabili visto che il peso crescente che il terrorismo ha assunto su scala globale. Almeno su questo punto, Macron dovrebbe essere una buona spalla di Haftar, anche se rimane il nodo della Fratellanza Musulmana, sempre più osteggiata all’interno del mondo arabo e vista con diffidenza in occidente.

L’incontro tra Fayez Al Sarraj e Khalifa Haftar è visto con estremo interesse anche dagli Stati Uniti. La creazione di un governo unitario che includa il generale potrebbe arginare l’influenza russa in Libia e limitare l’esuberanza di un militare dal crescente peso politico che non può essere ignorato – e tanto meno osteggiato – dalla comunità internazionale così come è accaduto fino a oggi. Ma c’è di più: un articolo di Amina El Sobki, Senior Analyst e Direttrice del Middle East Program dell’Institute for Global Studies (Igs), rivela che la Casa Bianca potrebbe persino inviare forze speciali anti-terrorismo in stile-Somalia con l’obiettivo di dare stabilità al paese.

Una decisione che verrebbe presa, se mai si dovesse concretizzare, con il consenso di Haftar, considerato parte di un accordo unitario tra le varie forze del paese. Una possibilità  è bene ricordarlo, “in netto contrasto con quanto affermato dal presidente Donald Trump “solo pochi mesi fa”, quando “disse che non vedeva alcun ruolo per gli Stati Uniti in Libia, eccezion fatta per qualche sporadica azione di contrasto al terrorismo”.

Gli scenari sono molteplici e suscettibili di variare in ogni momento, anche per la difficoltà di leggere la situazione sul campo e l’imprevedibilità degli attori. Sebbene gli elementi a disposizione per avere un’idea della nuova strategia americana siano “ancora decisamente scarsi”, scrive l’analista, alcune indiscrezioni trapelate dalla Casa Bianca lasciano “intuire” che “quello della Somalia” sia “il modello operativo”: “la presenza discreta ma attiva di unità capaci di fornire concreto sostegno alle operazioni militari, senza un vero e proprio dispiegamento” di truppe.

“Nella definizione della nuova strategia”, afferma l’analista dell’Igs, “potrebbe aver avuto un peso non insignificante il potenziale ruolo della Russia soprattutto nel sostenere le ambizioni” di Haftar, “determinando l’esigenza di un intervento finalizzato a ridurre il margine d’azione di Mosca in Nord Africa. L’espansione della politica russa in direzione della Libia potrebbe provocare, nell’ottica statunitense, il precedente per “un epocale sbilanciamento delle forze nel Mediterraneo” che sottrarrebbe “a Washington il controllo di un’area dove storicamente ha esercitato un ruolo a dir poco egemone dalla fine degli anni Settanta ad oggi”, scrive inoltre Sobki.

 

 

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