La storia. La mia Africa, il cuore e le scarpe lasciate ad Addis


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(Roberto Bonazza) – Addis Abeba è completamente diversa da qualsiasi altra città avessi visitato fino ad allora e da tutte quelle che avrei poi visto nella mia vita.

Ufficialmente di circa 3 milioni di abitanti, nella realtà si pensa almeno il doppio.

Arriviamo con l’aereo di prima mattina e dal finestrino non riesco a vedere la torre di controllo, si vedono solo delle baracche in lamiera in mezzo ai campi.

Non ho un bagaglio se non uno zainetto con poche cose.

Tutto ciò che mi serve per vivere nella missione mi viene fornito dai salesiani: questo è solitamente il modo per fare entrare i beni di necessità evitando i controlli doganali. Gli stessi salesiani ci raccontano, infatti, di diversi container fermi in dogana da almeno 5 anni contenti cibo e farmaci … praticamente inutili. Dopo aver passato la dogana, saliamo su un fuoristrada e cominciamo un viaggio di 3 ore verso la nostra destinazione: la missione Salesiana di Zway.

La capitale che vedo dai finestrini ha 2 facce. Il ‘centro’, un viavai caotico di auto e persone che ti chiamano in continuazione offrendoti qualsiasi cosa, furgoncini e camion distrutti, tutto mescolato in un unico flusso che si muove impazzito in mille direzioni.

La periferia caratterizzata da strade fangose, baracche ammassate e tante, tante persone per strada. Senza che nemmeno ce ne accorgiamo, spariscono 2 zaini dal pickup che ci segue con i nostri bagagli. Ricompariranno, quasi per incanto, dopo una settimana. I Salesiani sono radicati in questo paese da tempo e sanno come comportarsi. Ci spiegano che in queste terre per sopravvivere, devi sapere come muoverti e a chi rivolgerti.

Prima di arrivare a destinazione, attira la mia attenzione una montagna di ossa di 20 metri del mattatoio della città, sovrastata dagli avvoltoi che controllano che le ossa siano pulite per bene…

Tutto intorno il paesaggio è un deserto interrotto qua è là dalle acacie o dalle capanne di fango. Solo una strada asfaltata. Ci dicono che le strade asfaltate sono opera degli italiani. L’etiope che ci guida, conserva un bel ricordo della colonia italiana.

Arriviamo alla missione e finalmente incontriamo la gente: sono ragazzi e bambini. La missione salesiana di Zway è infatti una scuola. Noi arriviamo nel periodo delle vacanze per cui da scuola si trasforma in un “centro estivo”. I ragazzi trascorrono la mattina impegnati in vari lavori manuali mentre nel pomeriggio si svagano e giocano tutti insieme.

Noi ci occupiamo di tutto: spaliamo sassi, aggiustiamo e cataloghiamo libri, imbianchiamo, ci dedichiamo a lavori di idraulica, ci adoperiamo in tutto quello per cui c’è bisogno e siamo in grado di fare.

C’è tanto lavoro da fare ma in missione non si sta affatto male: c’è l’acqua, la corrente elettrica e del buon cibo.

Ci dicono che ai pasti è meglio che non rimanga niente. Si fa economia su tutto, soprattutto con l’acqua. La missione ha un pozzo, ma l’acqua non è potabile, non per noi. L’unica acqua potabile è conservata dentro a delle bottiglie che ci chiedono di usare con molta parsimonia oppure di servirci dal depuratore della casa dei volontari, lontana chilometri rispetto alla missione.

Capisco che tutto questo mi sta cambiando e mi fa percepire l’importanza di quel che sempre diamo per scontato: il cibo, i vestiti, le scarpe, l’acqua. Ho imparato cosa significa avere veramente sete, gestire l’acqua per lavarsi o anche solo rinfrescarsi in un clima torrido.

La giornata è contrassegnata da mille cose da fare ma, diversamente da come son abituato, non trascorro le ore con estrema frenesia ma mi faccio contagiare dalla gente del posto che mi trasmettono calma e serenità.

La gente del posto non ha l’acqua potabile sempre a disposizione e deve fare chilometri e chilometri per raggiungere qualche pozzo e poter fare un minimo di provvista. Sono persone vestite con quel che noi occidentali considereremo degli stracci, alcuni di loro non mangiano da giorni ma nonostante questo, vengono in missione ad aiutarci per pochi birr (un birr vale circa 5 centesimi di euro) che per loro significava un pasto. Gli indigeni sono calmi, gioiosi, allegri ma soprattutto sereni. Tutte le persone che incontro, dai bambini agli adulti, regalano dei gran sorrisi.

Sono sorpreso e al contempo incuriosito dalla vita di queste persone.

Addis, un ragazzo conosciuto in missione, mi spiega tante cose.

Mi racconta che le famiglie non possono permettersi i vestiti per i bambini per cui gli mettono quel che hanno o anche niente.

Le bambine di 8-9 anni devono badare ai fratellini più piccoli mentre i genitori trascorrono le loro giornate a coltivare una terra arida sotto un sole cocente.

Chiedo ad Addis perché queste persone siano così riconoscenti nei nostri confronti, ci ringraziano in continuazione eppure noi viviamo una situazione decisamente più agiata.

Mi spiega che per loro che non hanno niente, vedere un ragazzo che lascia la sua casa, i suoi privilegi, per venire in mezzo al nulla a giocare con loro, è un regalo enorme. Li fa sentire importanti.

Addis ha ragione, noi siamo lì per loro ma la verità è che queste persone, con la dignità con cui affrontano la povertà, stanno arricchendo la mia vita.

Prima di andare via ho regalato a Addis le mie scarpe, usate, brutte, mezze rotte, per lui è stato un regalo bellissimo, non ha mai avuto scarpe così. Si ritiene già fortunato per le infradito di copertone che indossa.

Sono partito lasciando là tutto ciò che mi ero portato, zaino compreso ma con un bagaglio enorme dentro al cuore che nessuno potrà mai portarmi via

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