Serve un’alleanza internazionale antiterrorismo: punire gli stati finanziatori


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(Talal Khrais – Beirut) – Il terrorismo dello Stato Islamico e di al Qaeda non è che un paravento dietro si nascondono equilibri regionali e internazionali molto più ampi. L’Occidente oggi non può pensare di combattere il terrorismo e il fondamentalismo islamico senza una stretta collaborazione con i paesi che nel Medio e Vicino Oriente hanno maggiormente subito gli effetti catastrofici di quella violenza.

I miliziani jihadisti sono stati combattuti ferocemente in Siria e Libano. Si pensi, ad esempio, al paese dei cedri, dove un modesto esercito, che usa quasi esclusivamente armi leggere, è riuscito a sconfiggere nella loro roccaforte, Ersal, pericolosi terroristi. Un risultato raggiunto per due motivi: il primo è il mancato sostegno dei Paesi Arabi ai terroristi, il secondo è la forte volontà della popolazione locale di respingergli, malgrado l’enorme quantità di denaro del Fronte Jabhat El Nusra (braccio siriano di al Qaeda) e dello Stato dell’Iraq e del Levante (ISIS).

Per più di tre anni, l’Esercito Arabo Siriano ha combattuto una guerra planetaria sostenuta da Usa, Europa, Turchia, Israele e Monarchie del Golfo. Un attacco massiccio, senza precedenti. Eppure il popolo siriano ha resistito contro il terrorismo e il presidente Bashar al Assad  ha respinto gli attacchi di finti rivoluzionari. Questi pseudo ribelli non volevano la democrazia, volevano soltanto distruggere l’unità dello stato siriano, cacciare tutte le minoranze e impossessarsi dei beni di una nazione che ha una storia millenaria di convivenza pacifica. La vera resistenza, ora è chiaro, era quella di Assad, del suo esercito e del popolo che lo ha sostenuto contro l’avanzata del terrorismo islamico e del salafismo.

L’ingresso dell’ISIS nello scenario siriano era previsto e preparato da tempo. Così come sono stati , preparati (e finanziati) anche i gruppi armati a loro sostegno. Così è accaduto in Iraq, dove quel gruppo è nato. Stati Uniti e Arabia Saudita intendevano rovesciare il governo di Baghdad, colpire indirettamente la Repubblica Islamica dell’Iran, fedele alleata di al Maliki, e far insdediare un governo fantoccio agli ordini della Casa Bianca. Il piano fallito perché i jihadisti non sono arrivati al centro del potere nella capitale.

È vero che l’ex premier al Maliki ha dovuto farsi da parte ma il nuovo governo, a guida sciita, resta autonomo dalle direttive di Washington. L’ISIS, non riuscendo arrivare nella capitale, si é dunque diretto verso le zone curde, dove sono più forti gli interessi degli Stati Uniti e dell’Occidente. A quel punto, solo a quel punto, Barack Obama si è convinto che fosse necessario intervenire. Gli interessi economici, come si sa, contano più della democrazia.

Nell’ascesa dello Stato Islamico c’è anche lo zampino della Turchia, fedele alleata del Qatar e dei Fratelli Musulmani. Nel 2012, nei campi di addestramento dei gruppi jihadisti, si sono esercitati in Turchia centinaia, forse migliaia,di volontari, futuri combattenti in Siria e Iraq. La responsabilità del governo e dei servizi segreti di Ankara è enorme.

Nel biennio 2012-2013 si stima che siano arrivati a queste formazioni di combattenti ben 2 miliardi di dollari, in gran parte da Qatar e Arabia Saudita. Sono combattenti e brigate che hanno giurato fedeltà nel nord della Siria all’ISIS, l’organizzazione guidata da Abu Bakr al-Baghdadi, nel frattempo diventato Califfo dello Stato Islamico. Parliamo della più potente e ricca organizzazione criminale del mondo, un soggetto che fattura circa 2 milioni di dollari al giorno.

Il gruppo jihadista è oggi il più forte avversario dell’Iran, della Siria di Assad, di Hezbollah e di qualsiasi formazione sciita irachena. Attraverso il finanziamento di Arabia e Saudita, lo Stato Islamico cerca di colpire i nemici delle monarchie del Golfo. In questo scenario fa la sua parte anche Israele che per combattere Teheran si avvale dell’aiuto dell’Arabia Saudita. Un abbraccio mortale che può avere serie conseguenze per la stabilità della regione. Proprio nei giorni scorsi si è scoperto che il drone israeliano Hermez, abbattuto sui cieli dell’Iran, é partito dal territorio saudita.

Il Qatar e il Kuwait rimangono comunque i principali sponsor del terrorismo jihadista internazionale. Le prove sono innumerevoli e tanto si è scritto. Anche in Europa, con grave ritardo, si è presa consapevolezza di questa emergenza e di questo pericolo.

Sulla base di accurate informazione provenienti dai servizi di sicurezza tedeschi, il ministro dello Sviluppo tedesco, Gerd Mueller, recentemente ha puntato l’indice verso l’Emirato di Doha, spiegando che i terroristi del Califfo terrorista vengono pagati dal Qatar. In precedenza il vicecancelliere Sigmar Gabriel, ministro dell’Economia, aveva suggerito ai colleghi dell’Ue di iniziare a discutere chi finanzia l’ISIS. Un importante analista americano, David Cohen, ha detto «il Kuwait è l’epicentro del finanziamento dei gruppi terroristi in Siria» mentre il Qatar ne costituisce il retroterra grazie ad «un habitat permissivo che consente ai terroristi di alimentarsi». Tutti gli analisti convergono sul fatto che il Qatar abbia una doppia identità,da un lato ospita soldati Usa e accoglie uomini d’affari israeliani ma dall’altra finanzia i più feroci gruppi terroristi sunniti.

Turchia, ovvero un membro della NATO, Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, stretti amici dell’Occidente, sono dunque sotto accusa per aver alimentato il più pericoloso fenomeno terroristico che la storia recente conosca. Da questo fatto bisogna incominciare, creando un’alleanza internazionale contro il fronte del terrorismo che vede in prima linea Paesi che hanno pagato il alto prezzo nella lotta all’oscurantismo: Libano, Siria e l’Iraq. Senza la loro presenza, il riconoscimento del ruolo che hanno svolto in questi anni nella lotta contro il terrorismo, qualsiasi azione diplomatica e militare dell’Occidente rischia di essere vana. E nessuna azione può essere efficace se non si puniscono gli stati finanziatori di chi ha insanguinato questi paesi.

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