L’ultima intervista prima di morire di Shaikh Hassan Abboud, capo dei ribelli siriani


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(Alessandro Aramu) – Shaikh Hassan Abboud, conosciuto anche come Abu Abdullah Al-Hamawi, era il capo della Brigata Ahrar al-Sham, uno dei più potenti gruppi ribelli in Siria. Un’esplosione lo ha ucciso dieci giorni fa insieme a tutta la dirigenza del suo gruppo. Poche ore prima di morire, Shaikh Hassan Abboud ha rilasciato un’intervista esclusiva a Yvonne Ridley, giornalista di Middle East Monitor. Era preoccupato per la piega che stava prendendo il conflitto siriano e aveva ammesso la difficoltà di fare progressi militari contro Bashar al Assad a causa delle lotte interne tra i vari gruppi che si oppongono al governo di Damasco. A indebolire il fronte dell’opposizione, secondo Abboud, era soprattutto l’avanzata dello Stato Islamico, un’avanzata che ha colto quasi tutti di sorpresa.

Il capo dei ribelli, però, è apparso stranamente entusiasta malgrado la frustrazione di una guerra contro “il dittatore Assad” costantemente interrotta dalle lotte interne all’opposizione armata. Abboud sentiva aria di cambiamento, nuove prospettive per il futuro. A rincuorarlo era la lotta degli Stati Uniti all’ISIS e la nascita di una coalizione che avrebbe portato la pace e l’unità nella maggioranza dei gruppi ribelli siriani. Insomma, secondo il comandante della Brigata Ahrar al-Sham, gli Stati Uniti con la battaglia allo Stato Islamico avrebbero rafforzato l’opposizione siriana e indebolito ulteriormente il governo di Damasco.

L’intervista rilasciata a Middle East Monitor è una preziosa chiave di lettura per comprendere, dalla viva voce di un protagonista, la strategia degli Stati Uniti in Siria e, contestualmente, quella dei gruppi ribelli. Il traguardo di una nuova unità nell’opposizione armata, ha inoltre ammesso Abboud, è stata raggiunta attraverso concessioni che hanno consentito di concentrarsi sugli obiettivi che erano fondamentali per i singoli gruppi, senza cambiare principi e priorità nella lotta ad Assad. Insomma, un cambio strategico per far pendere l’ago della bilancia della guerra in Siria dalla loro parte.

Tante le concessioni fatte ma non quella di escludere, come vorrebbero alcuni stati stranieri, gli islamisti dalle fazioni ribelli: “Il jihad è una cosa praticata da tutti noi e non solo dall’elite”. Insomma i gruppi, anche radicali, che non fanno parte dell’ISIS rimangono nella coalizione anti Assad e questo, sembra abbia fatto capire Abboud, è stato accettato anche dagli Stati Uniti perché è l’unico modo per fronteggiare il Califfato.

Il vero messaggio del jihad, secondo il capo della Brigata Ahrar al-Sham, è quello di una lotta che unifica le varie fazioni dei ribelli e non è quello dell’ISIS che è un auto-apparato che si oppone a tutti e decide da solo. Assad può cadere solo così, per questa ragione, sostiene, “molti gruppi hanno approvato questa strategia. L’unico problema riguarda i gruppi che hanno nelle proprie file combattenti stranieri e che hanno paura di essere organizzati a livello locale”.

Abboud prima di essere ucciso ha rivelato che i gruppi ribelli avevano messo in agenda una riunione preparatoria per formare un consiglio rivoluzionario che avrebbe indicato obiettivi comuni e priorità, lasciando da parte quelle azioni che non potevano essere concordate assieme.

Non mancano momenti di pura propaganda nella sua intervista, come quando tratteggia l’ISIS come una creatura del nemico Assad. Secondo il capo della Brigata Ahrar al-Sham, lo Stato Islamico sarebbe “supportato, ideato e finanziato dal regime e i suoi combattenti persino addestrati dal capo della Guardia Repubblicana iraniana”. Abboud parla dell’ISIS come un gruppo non islamico che utilizza l’Islam come un cavallo di troia.

Al di là delle motivazioni religiose, nelle sue parole emerge la rabbia per la strategia di Assad – peraltro infondata – che prende di mira soprattutto i gruppi ribelli lasciando all’ISIS la possibilità di scatenarsi contro quelli che in teoria sarebbero dovuti essere suoi alleati. Per il capo dei ribelli questo basta a considerare il presidente siriano amico del potente gruppo jihadista. Un giudizio condiviso anche dalla Coalizione Nazionale siriana, che ha accusato l’ISIS di “servire gli interessi della cricca del presidente Bashar Assad, direttamente o indirettamente, e di agire contro la rivoluzione siriana “.

Abboud non accetta il fatto che l’ISIS si sia sempre rifiutato di entrare in contatto con gli altri gruppi ribelli e che addirittura li abbia cacciati dalle città in precedenza controllate, introducendo una nuova amministrazione: “Attaccavano noi e non le forze di Assad e avevano a disposizione una quantità illimitata di risorse”.

Le tensioni con i gruppi ribelli, ricorda Abboud, hanno raggiunto il massimo livello nel gennaio di quest’anno, quando lo Stato Islamico ha rapito, torturato e ucciso Hussein Al-Suleiman (Abu Rayyan), un alto comandante della Brigata. Una morte terribile testimoniata da una foto che ha fatto il giro dei social media.

L’uccisione di Abu Rayyan ha rappresentato un punto di svolta per il capo della Brigata Ahrar al-Sham che, fino a quel momento, non aveva mai criticato pubblicamente l’ISIS. Quella morte ha scatenato la sua rabbia, rammarico e indignazione per le azioni di un gruppo che fino a quel momento considerava un possibile alleato e non certo un sostenitore del governo di Damasco. Dopo quella morte anche la Coalizione Nazionale siriana ha accusato lo Stato Islamico “di essere in combutta con il presidente Assad”. Più per rabbia che per convinzione. Dopo tutto i ribelli erano gli unici a perdere consenso e posizioni sul terreno, incassando cocenti sconfitte dallo Stato Islamico nel nord est e dall’esercito arabo siriano nel resto del paese. Una situazione insostenibile che solo l’intervento degli Stati Uniti poteva cambiare. Ecco le ragioni per cui Shaikh Hassan Abboud, poche ore prima di morire, ha manifestato grande speranza per l’intervento di Obama in Siria. Solo così la lotta al nemico Assad può riprendere finalmente vigore.

 

(twitter@AleAramu)

 

Alessandro Aramu (1970). Giornalista, direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013) e Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014).

 

 

 

 

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