Le trasformazioni del Medio Oriente e del Nord Africa: il caso Siria


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(Abdallah Kassir) – Negli ultimi anni, abbiamo assistito in Nord Africa e in altre aree del mondo a sconvolgimenti che in modo semplicistico sono stati definiti con l’espressione “primavere arabe”. Si è trattato di eventi che, in molti casi, hanno cambiato l’assetto politico e istituzionale di molti paesi. Spesso, malgrado i propositi di definizione, più che di “primavere” parlerei di “autunni arabi”.

La ragione è che questi eventi mancano di una leadership capace di identificare una mappa politica e di indirizzare i paesi verso un miglioramento delle proprie condizioni. Sebbene questi eventi siano stati scatenati da una reale richiesta di cambiamenti politici, di democrazia, di libertà di espressione o, anche, da condizioni di povertà, non credo che questi fenomeni possano definirsi come “rivoluzioni”.

Come detto, la mancanza di una leadership e di una piattaforma politica seria costituiscono parte degli elementi di debolezza di tali movimenti. Inoltre, è possibile comprendere il fenomeno delle rivolte arabe solamente conferendo centralità alla questione palestinese.

Infatti, la dura occupazione della Palestina continua a privare il suo popolo della capacità di decidere e di autodeterminarsi. Il criterio per stabilire il successo di una rivoluzione in una società araba è strettamente legato alla questione palestinese. Una rivoluzione nel mondo arabo, infatti, è tale se effettivamente introduce reali cambiamenti nel sistema dell’occupazione in Palestina.

Un altro criterio adatto a stabilire l’efficacia di un movimento rivoluzionario è la sua capacità di respingere le intromissioni esterne e, in particolare, la dominazione americana. Tuttavia, non vi è nessuno di questi fattori negli eventi a cui stiamo assistendo negli ultimi anni. E la mancanza di questi elementi è indicativa del fatto che i cambiamenti nello Yemen, in Tunisia e in Egitto, per citare alcuni esempi, non abbiano comportato un concreto rinnovamento del sistema.

Non solo la situazione è rimasta tale, ma i problemi presenti in origine sono stati amplificati e sono degenerati in conflitti, caos e guerre interne. In alcuni casi, i processi di redazione della Costituzione e i percorsi verso le elezioni non hanno coinvolto tutte le parti interessate, come è accaduto in Libia, in Tunisia e in Egitto. In altri casi, invece, la situazione è degenerata in guerre civili interne e, in altri ancora, in crisi internazionali.

Un chiaro esempio di questo ultimo scenario è la Siria dove sono intrecciati interessi regionali e internazionali che hanno cavalcato esigenze interne per combattere contro il regime. In tale occasione, alcune soluzioni di riforma avanzate dal presidente Assad vennero rifiutate. Il regime, infatti, offrì molte concessioni e si dimostrò disposto a introdurre delle riforme radicali nel campo del pluralismo, della libertà dei media e in ambito sociale. Tuttavia, gli eventi hanno preso una piega militare finalizzata a distruggere la Siria.

L’uso della forza militare, sotto questo profilo, non può essere considerata una soluzione. L’auspicio, dunque, è che l’uscita dalla crisi passi attraverso una trattativa politica che conduca alla realizzazione di un reale processo di riforma.

La Siria è stata demolita da una guerra di aggressione che ha colpito il Paese dal punto di vista infrastrutturale, economico e sociale. Al contrario, il suo sistema politico ha retto: c’è un Presidente, c’è un governo, ci sono i ministri e continua a esistere un livello istituzionale che fino a oggi ha garantito la sua sovranità. Per questa ragione, è bene che tutti collaborino alla ricostruzione del Paese.

Un altro caso peculiare è quello del Bahrain, Paese piccolo e oppresso, dove la rivoluzione, pacifica e popolare, trascina consensi da parte della maggior parte dei cittadini. Nonostante questo rappresenti un vero movimento di rivoluzione popolare, la sua voce non è stata capace di raggiungere la coscienza araba e internazionale. Tuttavia, queste forze hanno dimostrato il proprio potenziale rivoluzionario rifiutando l’egemonia esterna e conservando, allo stesso tempo, il loro carattere pacifico, malgrado la dura oppressione del regime. Anche in questo caso, non si può trascurare la posizione americana che, contenendo l’eco della rivolta, ha cercato di soffocare le voci di questi autentici movimenti popolari allo scopo di conservare gli interessi israeliani nella regione.

Tale vicenda, infatti, ha confermato che i temi che stanno più a cuore agli americani sono la sicurezza di Israele e l’approvvigionamento dei rifornimenti petroliferi. In nome di questi due principi, infatti, è stata sacrificata l’autonomia dei popoli. A tale proposito, quanto accaduto in Egitto è significativo. Gli americani, dopo essersi accertati dell’impossibilità di focolai filo-palestinesi nel nuovo sistema egiziano e della propria possibilità di accedere alle risorse petrolifere, hanno abbandonato gli egiziani al proprio destino e alla guerra civile. I governi emersi nel nuovo contesto politico continuano a subire la dittatura americana e si dimostrano ancora incapaci di prendere decisioni autonome come, tra le tante, quella di sostenere la lotta del popolo palestinese.

 

 

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