(Alessandro Aramu) – Ci può essere un presidente degli Stati Uniti peggiore di Barack Obama per quanto concerne la politica estera in Medio e Vicino Oriente? Si. Quel presidente potrebbe essere Hillary Clinton, candidata democratica con alle spalle l’esperienza di ex segretario di Stato. Benché le primarie democratiche si siano concentrate principalmente sulle questioni di politica interna, c’è una parte del curriculum di Hillary utile a capire quale sia la sua visione del mondo. Una visione tipicamente americana, egemonica e neocolonialista che è stata una delle cause principali dei disastri in Siria, Iraq e Libia.
Proprio la Clinton, come ricorderanno i più, ha manifestato in passato il suo sostegno per l’opposizione siriana (considerando per lungo tempo “moderata” anche la complessa galassia jihadista e qaedista dalla quale sono emersi i terroristi dello Stato Islamico e di al Nusra), esprimendo in più occasioni l’odio viscerale per il presidente Assad e l’idea di creare una no-fly zone nel nord del paese. Le politiche dell’ex segretario di Stato non sono troppo diverse da quelle propugnate dai neo – conservatori che ache la Clinton vorrebbe sconfiggere nella corsa per la Casa Bianca. Tutto ciò induce a ritenere che qualunque sia il prossimo presidente degli Stati Uniti, alla fine per il Medio e Vicino Oriente le cose cambieranno ben poco.
Come ricorda Brad Blankenship in un suo editoriale sul giornale arabo Al – Masdar News, la cosiddetta rivoluzione siriana nel 2011 ha trasformato quegli eventi in una guerra su scala regionale e globale. Una circostanza che ha portato Joseph Massad, professore associato di Storia Araba alla Columbia University, a scrivere: “Gli Stati Uniti hanno distrutto la democrazia siriana in 1949, quando la CIA ha sponsorizzato il primo colpo di stato nel paese. Sempre gli Stati Uniti hanno distrutto la possibilità di un esito democratico della rivolta popolare. Le mie profonde condoglianze al popolo siriano”.
A differenza di quanto si è fatto credere all’opinione pubblica mondiale, non è assolutamente vero che di fronte alle prime ondate di protesta in Siria il governo di Damasco ha risposto con la repressione. Si tratta di una favola che è servita a giustificare buona parte degli interventi di politica estera degli Stati Uniti, dell’Europa e delle Monarchie del Golfo. Subito dopo le prime manifestazioni, come ha ricordato più volte anche la deputata cristiana Maria Sadeeh, il presidente Bashar al-Assad disse che la Siria non avrebbe seguito la stessa sorte degli altri paesi. Pronunciò quelle parole nel corso di un’ apparizione televisiva seguita da milioni di siriani.
Per questa ragione, come promesso, aprì la strada a una serie di riforme democratiche ed economiche frutto di un accordo tra il partito Ba’ath e i partiti dell’opposizione. Una delle concessioni più importanti fatte da Assad all’opposizione fu la riforma del sistema burocratico perchè, malgrado ciò che si vuole far credere, lo stesso presidente siriano non si è mai fidato di una serie di burocrati corrotti e inclini al fascino del denaro. Il “regime delle mazzette” è ben noto ad Assad. Non è solo propaganda occidentale, è un male che il presidente ha sempre cercato di combattere sapendo che molte serpi si nascondevano all’interno dei ministeri e nei centri nevralgici del potere, Ba’ath compreso. E infatti, recentemente, non ha mostrato alcuna pietà nei confronti di alcuni ministri, sostituendoli perchè avevano le mani, come si direbbe in Italia, non proprio pulite.
Dopo quelle aperture, Bashar al Assad era stato salutato da milioni di siriani come un vero riformista. Anche il sottosegretario di Stato Clinton in un primo momento lo aveva visto sotto quella luce. Ma tutto ciò non era bastato a placare le ambizioni e il desiderio di guerra di una parte dell’opposizione, sostenuta, attraverso i Fratelli Musulmani, dalla Turchia e dall’Arabia Saudita. Un’opposizione che voleva accendere la protesta in modo violento, cercando di far credere al mondo ciò che in realtà non stava accadendo nel paese.
L’ambasciatore indiano in Siria dal 2009 al 2012, VP Haran, ha ricordato la rivolta iniziale. Le sue parole sono illuminanti e aggiungono un piccolo tassello a quanto è già noto da tempo. Ecco che cosa scrive il diplomatico: “L’opposizione aveva deciso di fare una grande manifestazione ad Aleppo. Malgrado gli sforzi, c’era poca gente nelle strade e allora fecero arrivare molte persone da fuori con i pullman. Queste persone, non di Aleppo, arrivarono in città e incominciarono a protestare, incendiarono un po’ di cose in strada e poi se ne tornarono tranquilli nelle proprie case. I giornalisti alla fine hanno scritto che Aleppo si era ribellata”.
La presenza dei gruppi radicali in Siria era nota da tempo. Fino ad allora, con le buone o con le cattive, le autorità di Damasco erano riuscite a contenere una componente che aveva destato non poche preoccupazioni tra i cittadini. Assad e i suoi alleati sospettarono fin da da subito che dietro quelle rivolte c’era lo zampino del mondo radicale sunnita. Dopo tutto l’utilizzo dei gruppi radicali è stata “una procedura operativa standard” per le attività clandestine facenti capo a Washington in Medio e Vicino Oriente. La Siria non poteva rappresentatare un’eccezione in questo senso.
Dopo le prime aperture, Assad, di fronte alla crescente violenza portata avanti dalle componenti più estremiste dell’opposizione siriana, ha deciso di usare il pugno duro. Forse, è corretto dirlo, in alcune circostanze l’esercito ha reagito in modo inappropriato, prendendo di mira anche una parte della popolazione civile che certamente chiedeva più diritti e riforme e non voleva finire in alcun modo sotto il potere dei gruppi jihadisti, come purtroppo è accaduto. Il governo ha agito in buona fede, per salvaguardare l’unità e la sovranità di uno Stato che da lì a poco sarebbe stato devastato da una guerra che ha provocato oltre mezzo milioni di morti e milioni di profughi. Una cosa è certa: mentre il conflitto si è trasformava in disastro, l’opposizione sostenuta da Hillary Clinton si rifiutava di negoziare con il governo di Damasco scegliendo la via delle armi a quella della politica. La Casa Bianca porta è responsabile di quella scelta scellerata.
La posizione non è mutata. E ancora oggi, quando a Ginevra è in corso il processo di pace, le sigle sostenute dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita rimangono ferme sulla loro posizione: chiedere le dimissioni del presidente Assad. E’ una richiesta che ignora anche l’ultimo dei sondaggi dai quali emerge con chiarezza che la maggior parte della popolazione siriana sta con il suo leader e che la richiesta di una sua uscita di scena è immotivata e del tutto illogica per condurre a buon fine le trattative. La Russia, infatti, ha sempre impedito che questa fosse una condizione per porre fine alla guerra in Siria. Una condizione che, alla luce dei fatti, non appare in linea con ciò che dovrebbe essere un’opposizione democratica.
Tra i gruppi che sostengono questa soluzione, infatti, vi sono sigle come Ahrar Al-Sham, Jabhat Al-Nusra, Jaysh al-Islam che nulla hanno a che fare con un processo democratico nel paese arabo. Queste sigle, è bene ricordarlo, sono state sostenute dall’amministrazione americana, utilizzate strumentalmente in funzione anti Assad, tanto da considerarle, in certi momenti, persino “moderate”. Niente di più falso visto che si tratta di gruppi armati radicali che hanno una visione politica dell’Islam incompatibile con una struttura democratica e laica della Siria. Alcune affinità con lo Stato Islamico sono evidenti, come l’idea di craere un grande emirato transnazionale dove la legge della shaaria regola ogni tipo di rapporto, pubblico e privato.
La Clinton rappresenta la massima espressione della politica del doppio peso: colui che considera terrorista in casa propria (si pensi ad al Qaeda), viene considerato ribelle o rivoluzionario in altre parti del mondo. L’importante è che il sangue versato non sia quello americano, altrimenti la narrazione della retorica prende il sopravvento sulla logica della geopolitica. Una logica che l’amministrazione americana usa da sempre per destabilizzare i paesi nemici. Il cortile di casa dell’America Latina, ad esempio, è stato da sempre il teatro preferito della CIA e del Pentagono.
Eppure Hillary Clinton, proprio come ha fatto Barack Obama, ha sostenuto i crimini di Ahrar Al-Sham, Jabhat Al-Nusra, Jaysh al-Islam con l’obiettivo di far cadere un presidente che nel 2014 è stato rieletto con il 90% dei consensi, in una tornata elettorale boicottata dalle opposizioni che hanno preferito affidarsi alle armi, e non alle urne, per far sentire la loro voce. E quella voce, si ricorderà, si è fatta sentire con l’uccisione di almeno 50 persone nelle sedi elettorali. Di quei morti oggi non se ne parla più. Eppure vanno annoverati tra le vittime di chi ha voluto bloccare dal 2011 a oggi qualsiasi processo democratico in Siria. Brad Blankenship scrive: “L’opposizione siriana come può affermare di sostenere la democrazia quando non ha nemmeno partecipato al processo democratico?”. E’ una domanda che rimane sospesa nell’infinita serie di questioni che gli Stati Uniti non hanno mai voluto risolvere. Così è nato lo Stato Islamico. Così è stato devastato un paese. E così, forse, Hillary Clinton diventerà la prima presidente donna che varcherà la soglia della Casa Bianca. E per la Siria non sembra essere una buona notizia.
Alessandro Aramu (1970). Giornalista professionista. Laureato in giurisprudenza, è direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013), Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria(Arkadia Editore 2014). E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. E’ responsabile delle relazioni internazionali della Federazione Assadakah Italia – Centro Italo Arabo e Presidente del Coordinamento nazionale per la pace in Siria.