Il recente accordo di tregua tra Israele e Hamas ha segnato un momento cruciale in un conflitto che continua a dilaniare la regione. I primi tre ostaggi israeliani rilasciati da Hamas sono stati accolti con abbracci, pianti e sollievo. Le immagini dei loro volti stanchi e pallidi, ma in buone condizioni secondo le autorità israeliane, hanno fatto il giro del mondo.
Parallelamente, 89 detenuti palestinesi hanno ritrovato la libertà: 69 donne, tra cui una minorenne, otto minori maschi e 12 uomini condannati per reati considerati minori. Mentre l’attenzione mediatica si è concentrata sul ritorno degli ostaggi israeliani, i racconti dei palestinesi liberati offrono uno spaccato inquietante sulle condizioni di detenzione nelle prigioni israeliane.
Una vita in isolamento: Khalida Jarrar
Khalida Jarrar, 62 anni, è una figura simbolica dell’attivismo palestinese. Componente di spicco del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Jarrar ha trascorso diversi anni nelle carceri israeliane senza mai essere condannata per coinvolgimenti diretti in atti di violenza. L’ultimo arresto, a dicembre 2023, ha segnato uno dei periodi più difficili della sua vita. “Mi hanno fatto tornare al Medioevo,” racconta. Per sei mesi, è stata confinata in una cella di un metro per due, senza finestre, con un letto di cemento e cibo crudo nonostante il diabete.
Jarrar descrive l’isolamento come una forma di “tomba vivente”: “Non avevo alcun contatto con l’esterno. A volte tagliavano la razione d’acqua, altre il freddo o il caldo erano insopportabili.” Nel corso degli anni, le sono stati negati permessi umanitari per partecipare ai funerali dei suoi genitori e della figlia. La sua testimonianza mette in luce un trattamento che, secondo Jarrar, “ha l’obiettivo di annientare la dignità dei detenuti palestinesi”.
Umiliazioni quotidiane: le giovani detenute
Dania Hanatsheh, 23 anni, e Rarid Walid Amer, entrambe studentesse universitarie, descrivono un’escalation di abusi nelle carceri israeliane dopo il 7 ottobre. “Ci pettinavamo con le forchette,” racconta Amer, riferendosi alle condizioni igieniche inesistenti. Le detenute venivano perquisite corporalmente in modo umiliante, private dei vestiti tradizionali e costrette a vivere in spazi sovraffollati. “Una volta ci hanno radunate in una stanza di tre metri per sette, eravamo cinquanta. Le forze speciali sono entrate con i cani, ci hanno picchiate e minacciate,” ricorda. Per le donne, il ciclo mestruale diventava un incubo. Munira racconta di aver ricevuto un solo assorbente per tutto il periodo del ciclo. Al momento del rilascio, molte detenute soffrivano di infezioni gravi causate dalle condizioni insalubri e dalla mancanza di cure mediche.
Torture sistematiche: i racconti degli uomini
Le testimonianze raccolte da giornali come Haaretz e The Guardian tracciano un quadro altrettanto sconvolgente delle condizioni subite dai detenuti maschi. Malek, uno degli ex prigionieri, descrive il terrore quotidiano durante gli spostamenti: “Le guardie ti ammanettavano e ti conducevano piegato lungo i corridoi. In una stanza ho visto il pavimento coperto di sangue rappreso. Sapevo cosa mi aspettava.” Le percosse erano brutali, tanto da far temere per la propria vita. Munther Amira, che ha perso 33 chili durante la detenzione, racconta di essere stato costretto a spogliarsi e a subire perquisizioni umilianti con l’uso di cani addestrati.
Un altro detenuto, Burhan, narra di abusi sessuali subiti in carcere: “Mi hanno bendato, spogliato e picchiato. Non so per quanto tempo è durato, ma una volta tornati in cella, nessuno osava parlare.” Questi episodi di violenza, spesso documentati da video sui social, sono una pratica nota anche alle Nazioni Unite, che hanno espresso preoccupazione senza ottenere risposte concrete.
Sde Teiman: una “Abu Ghraib israeliana”
Un’inchiesta della CNN del marzo 2024 ha portato alla luce nuove rivelazioni sui trattamenti disumani subiti dai detenuti palestinesi nella prigione di Sde Teiman, situata nel deserto del Negev. Descritta come una struttura segreta, è divisa in due sezioni: una per la detenzione generale e un ospedale da campo per i feriti. Qui, secondo le testimonianze, i detenuti vengono bendati, spogliati e legati ai letti per giorni, costretti a indossare pannoloni e nutriti attraverso cannucce. Pestaggi e umiliazioni sono descritti come parte di una punizione collettiva per gli eventi del 7 ottobre.
Un medico che ha lavorato nella struttura ha definito l’esperienza come un’esposizione alla vulnerabilità estrema: “Essere nudi, incapaci di vedere e totalmente immobili è una forma di tortura psicologica.” Le immagini satellitari mostrano che il complesso è stato ampliato significativamente dopo l’inizio del conflitto, con oltre 100 nuove strutture costruite negli ultimi mesi.
Un sistema che toglie dignità
Le condizioni di detenzione dei palestinesi nelle carceri israeliane riflettono un sistema di controllo descritto da molti attivisti come disumano. Secondo un rapporto di Amnesty International, i detenuti sono spesso privati di assistenza medica adeguata, cibo nutriente e accesso all’igiene di base. La fame è una costante, con pasti insufficienti e spesso avariati. L’urina rossa, segno del corpo che consuma i muscoli per sopravvivere, è un’immagine ricorrente nei racconti. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori Palestinesi, ha definito queste pratiche “misure coercitive illegali”. Tuttavia, le sue dichiarazioni sono rimaste inascoltate.
Una tregua fragile
Mentre la tregua tra Israele e Hamas regala momenti di speranza per le famiglie degli ostaggi, le testimonianze dei detenuti liberati evidenziano un quadro ben più complesso. La sofferenza subita nelle prigioni israeliane è un capitolo oscuro che merita attenzione internazionale, non solo per garantire giustizia alle vittime, ma anche per prevenire future violazioni dei diritti umani. La liberazione, per molti, è solo l’inizio di un lungo percorso verso la guarigione fisica e psicologica.