(Alessandro Aramu) – Dallo scoppio della rivolta in Siria nel marzo 2011, Erdogan ha assunto il ruolo – e come tale è stato identificato all’esterno – di padrino del movimento dei Fratelli Musulmani nell’area intorno a un conflitto che si trascina da quasi 5 anni. Erdogan ha utilizzato quella rivolta, inaspettatamente e perfidamente, contro il presidente siriano. Non certo per considerazioni religiose e ideologiche e neppure per la difesa delle libertà nel paese arabo, giacchè non può certo ergersi a paladino di alcunché viste le ripetute violazione dei diritti umani di cui è artefice in patria.
Le ragioni che hanno spinto Erdogan ad alimentare il caos in Siria, contribuendo in modo significativo alla sua distruzione, sono di pura opportunità, legate al sogno della Fratellanza di creare una grande alleanza transnazionale che mettesse insieme l’Egitto di Morsi, l’Arabia Saudita e la Turchia stessa. Queste tre potenze insieme (fino a quando Morsi ha avuto il potere) hanno contribuito ad incendiare la Siria con il solo obiettivo di far cadere Assad, detronizzare la minoranza sciita-alawita e imporre su un ampio territorio del Vicino Oriente un’idea dell’islam radicale depurato dalle minoranze etniche e religiose. Un progetto che è fallito politicamente ma è stato realizzato, almeno in parte, militarmente dallo Stato Islamico che ha ottenuto con la forza quello che la Fratellanza voleva realizzare, non senza forzature, attraverso un consenso popolare drogato e minacciato.
Il sogno neo ottomano di Erdogan è fallito sia per la caduta di Morsi in Egitto (dove la Fratellanza è stata messa al bando) sia per l’inaspettata forza di un gruppo terroristico, Daesh, che si è fatto Stato (o almeno pretende di esserlo) e, attraverso l’azione militare, è riuscito a controllare una vasta porzione di territorio tra la Siria e l’Iraq. Erdogan voleva rivivere i fasti dell’impero Ottomano, disintegrato dalle potenze occidentali nel corso della prima guerra mondiale. Un sogno a cui non intende rinunciare neanche oggi che la sua credibilità internazionale è ridotta ai minimi termini, sia per il sostegno ai terroristi dello Stato Islamico, sia per le ripetute violazione dei diritti e delle libertà nei confronti degli oppositori interni. Il paravento della Nato non è in grado di restituirgli la forza che aveva all’inizio della guerra in Siria.
La Turchia per realizzare il suo sogno “neo ottomano” si è sporcata le mani direttamente e vergognosamente, addestrando e facendo entrare in Siria migliaia di combattenti stranieri. Proprio in Turchia è stata fondata Jaysh al-Fateh, guidata dal ramo siriano di al-Qaeda, il Fronte Jabhet al Nusra, che la scorsa estate ha preso il controllo di una buona parte della provincia di Idlib.
Una guerra dai risvolti economici non indifferenti. L’altro sogno di Erdogan era quello di allargare i confini della Turchia fino a comprendere la seconda città della Siria, capitale economica del paese arabo e, al tempo stesso, un hub fondamentale per il traffico commerciale e industriale in Medio Oriente. La città è stata letteralmente saccheggiata e devastata dalle bande arnate sponsorizzate dalla Turchia e dall’Arabia Saudita. Aleppo, luogo di scambi e crocevia di economie tra l’Occidente e l’Oriente, è stata messa in ginocchio, interi quartieri, soprattutto quelli delle minoranze cristiane, sono stati quotidianamente prese di mira dai colpi di mortaio e dai missili dei cosiddetti ribelli.
La città ha resistito e oggi, grazie ai raid aerei russi e all’avanzata dell’esercito arabo siriano, intravvede una luce di speranza. Anche in questo caso la Turchia ha le mani sporche di sangue. Poco al di là di Aleppo, vicino ai confini turchi, alcune aree utilizzano la Lira turca come moneta ufficiale.
Come ha ricordato recentemente il commentatore Zen Adra in un suo editoriale, le montagne dell’estremo nord della Siria, dove sono situati in gran parte i villaggi turkmeni e ultra-sunniti, sono serviti come testa di ponte per realizzare questo disegno studiato e scritto a tavolino tra Ankara e Riyad. Le città di Salma, Rabia e Kansabba per più di 3 anni sono state dei centri nevralgici della ribellione anti-Assad. Senza dimenticare che la Turchia occupa già l provincia di Hatay.
La detronizzazione Assad avrebbe comportato la creazione di una fascia di controllo turco in Siria (nord di Latakia, la provincia di Idlib e la parte settentrionale ad Aleppo) che, nelle intenzione di Erdogan, doveva servire a bloccare le formazioni curde e la loro aspirazione ad avere uno stato autonomo e indipendente. Il sogno curdo è ancora oggi considerato una minaccia per la sicurezza nazionale della Turchia. Per questo il Sultano ha dato una mano ai terroristi dello Stato Islamico. Li ha addestrati, li ha fatti arricchire, li ha armati e li ha pure protetti. Gli uomini del Califfato, per le autorità di Ankara, rappresentavano lo strumento migliore per annientare le legittime ambizioni del popolo curdo. Uno strumento tutt’oggi valido se è vero che l’esercito turco per ogni bomba che riserva ai gruppi jihadisti ne spedisce almeno dieci agli odiati curdi.
Il sogno neo ottomano di Erdogan si è però frantumato: l’inaspettata resistenza di Assad e del suo esercito e, succesivamente, l’ingresso in scena della Russia hanno completamente stravolto i sogni di grandezza del Sultano. Quella zona cuscinetto a nord della Siria, quella sorta di nuova provincia che Ankara voleva creare a cavallo tra i due stati, rischia di trasformarsi ben presto in un gigantesco muro sul quale le fantasie malate di un uomo pericoloso sono destinate a tramontare definitamente.
Alessandro Aramu (1970). Giornalista professionista. Laureato in giurisprudenza è direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013), Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria(Arkadia Editore 2014). E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. E’ responsabile delle relazioni internazionali della Federazione Assadakah Italia – Centro Italo Arabo e Presidente del Coordinamento nazionale per la pace in Siria.