(Simona Planu) – Salman Natour è morto in un momento storico in cui il mondo arabo fatica a rimettere insieme i pezzi di una cultura millenaria e a contrapporla ad un disegno globale di cancellazione storica. L’autore palestinese era un colosso della memoria, lascia un messaggio che è, insieme, monito e guida.
Professione: scrittore. Con Natour, la riscoperta dell’identità è la chiave per tenere viva e conservare la memoria. Memoria che, spesso, non può servirsi di un ambiente fisico, distrutto o modificato dagli incidenti della storia.
E’ con Lei, L’autunno e Io che i temi dell’emarginazione, dell’assenza di diritti, sono ben inseriti in una cornice dai contorni attuali. La cancellazione dell’ambiente, la riorganizzazione sociale e del territorio si impongono sulla psicologia del ricordo rendendo gli uomini esuli anche dentro la propria terra di origine. Responsabile e complice è un mondo che va troppo veloce, preoccupato più del raggiungimento di ipotetici standard di modernità che della salvaguardia di una dimensione natia.
Il discorso di Natour ha sempre guardato aldilà di un confinato “protezionismo identitario” proiettandosi verso un ideale che esce dai confini e si confronta con le condizioni dettate dalla diaspora. Convinto che la cultura non si possa arginare all’interno di spazi fisici e che si autoalimenta con la ricerca costante di orizzonti da seguire e perseguire, assegna a chi è partito un ruolo fondamentale. Per Natour sono i custodi di un’immagine che manca a chi vive in un paesaggio che giorno dopo giorno è reso sempre meno riconoscibile.
La dimensione umana si combina con la ricerca di radici della cultura araba a sostegno di unità che vuole proiettarsi nella dimensione della vita e dell’essere.
E’ da uno sterminato campo profughi mondiale, dallo Yemen ferito e da una Siria usurpata a più riprese che arriva, ancora più forte, l’urgenza del suo messaggio.