Hezbollah, l’ideologia del martirio


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(Giovanni Carfora) – L’operazione suicida non è semplicemente il frutto dell’azione di individui irrazionali ne l’espressione di un odio fanatico, essa è per lo più un’impresa strategica che intende conseguire obiettivi politici specifici. Il fine principale degli attentati suicidi è utilizzare la minaccia della punizione per costringere un governo a cambiare politica e soprattutto, per imporre agli Stati occupanti il ritiro delle truppe da una terra che gli attentatori considerano la propria patria. Sebbene l’elemento del “suicidio” sia originale ed il dolore inflitto alla popolazione civile sia spesso spettacolare e raccapricciante, il fulcro della strategia dell’attentato suicida coincide con la logica coercitiva utilizzata dagli Stati quando impiegano la loro supremazia aerea o le sanzioni economiche per punire un avversario: infliggere costi crescenti alla popolazione civile per annientare l’interesse dello Stato–bersaglio nella questione in disputa, costringendolo a cedere alle richieste politiche. L’effetto coercitivo non dipende tanto dal danno reale, quanto dall’aspettativa dei danni futuri. Quando un movimento, un partito o un gruppo politico è abbastanza forte da raggiungere il proprio fine territoriale con mezzi convenzionali o di guerriglia vi sono poche ragioni per accettare la disapprovazione ed i costi che comporta il ricorso agli attentati suicidi. Il nazionalismo è la ragione principale della resistenza delle comunità locali a un’occupazione straniera; le situazioni più esplosive si verificano quando la religione della società occupante è diversa da quella della società occupata. Nel caso di un’occupazione straniera, la differenza religiosa in quanto tale – non l’Islam o una religione in particolare – rafforza i confini fra le comunità nazionali e rende così più facile ai leader dei movimenti nazionalistici rappresentare il conflitto a somma zero, demonizzare l’avversario e ottenere dalla comunità locale la legittimazione del martirio. La differenza religiosa, insomma, contribuisce a creare le condizioni che incoraggiano i movimenti di resistenza ad utilizzare l’arma degli attentati suicidi. Più gli attentatori giustificano le proprie azioni in base a motivi religiosi o ideologici corrispondenti alle credenze di una più vasta comunità nazionale, più il loro status di martiri risulta elevato e più diventa plausibile che altri ne seguano l’esempio. Hezbollah, come altre organizzazioni, coltiva il “mito del sacrificio”, che implica l’elaborazione di un insieme di simboli e rituali finalizzato a trasformare la morte di un singolo attentatore in un contributo alla nazione. Scuole, strade e monumenti portano i nomi dei martiri, le famiglie degli attentatori sono spesso ricompensate sia dalle organizzazioni sia da altri sostenitori. “L’arte del martirio” riceve dunque il sostegno popolare della comunità, riducendo così l’impatto negativo che gli attentati suicidi potrebbero altrimenti produrre; e in questo modo getta le basi per rendere credibile la minaccia di attacchi futuri. La retorica e la strategia di Hezbollah sul sacrificio poggia su tre motivi che nel loro insieme compongono l’argomentazione: –        lo scopo delle operazioni martirio è porre fine all’occupazione straniera; –        le operazioni sono necessarie a causa dello squilibrio tra forze di occupazione e società occupata in termini di potenza militare convenzionale; –        le operazioni martirio possono effettivamente centrare l’obiettivo perché la società bersaglio è sensibile alla pressione coercitiva. Hezbollah, come altre organizzazioni, è legata alla propria comunità grazie agli obiettivi politici che persegue, considerati legittimi dall’intera comunità, grazie alla partecipazione ad istituzioni benefiche o di altro tipo, di cui la società beneficia e grazie ad un elaborato sistema di cerimonie e rituali che identificano la morte di un attentatore suicida con il bene della comunità. Per dare impulso a una campagna prolungata, Hezbollah e altri leader sciiti cercarono di fomentare un supporto popolare alle operazioni suicide. Tennero centinaia di discorsi pubblici e interviste, spiegando per quale motivo ritenessero necessarie le missioni suicide. L’intento fondamentale dei loro discorsi era di persuadere la comunità locale nel suo complesso ad accettare che atti generalmente qualificati come suicidio e omicidio dovessero essere ridefiniti come martirio e legittima difesa. La religione ha un ruolo importante, ma il tema dominante sono le operazioni martirio quale risposta giustificata alle circostanze particolari dell’occupazione. Dichiarazione dopo dichiarazione, leader dopo leader, furono le circostanze reali dell’occupazione a definire come avrebbero dovuto essere interpretate le norme religiose: il martirio è giustificato non in sé, ma per il suo valore strumentale nel proteggere la comunità locale dall’occupazione straniera. Secondo tale argomentazione, un individuo ha una finalità sulla terra e deve porvi fine soltanto per un’altra finalità legittima. Porre fine ad una occupazione che opprime la comunità locale è considerato un fine legittimo, ma solo se l’auto sacrificio contribuisce effettivamente a tale scopo. Da un punto di vista strettamente religioso, per la scuola giuridica sciita la lotta contro gli oppressori è uno degli obblighi fondamentali e richiede una volontà a combattere e a sacrificare tutto, perfino la vita. Per gli sciiti, il martirio assume uno speciale significato grazie all’esempio del terzo imam [1], il nipote del profeta, Husayn [2]. Il suo martirio ha prodotto una voluminosa tradizione di elegie e opere poetiche, lette durante le cerimonie di lutto. L’alta considerazione nella quale sono tenuti i martiri, e la penetrante consapevolezza del fenomeno del martirio non possono essere spiegate facilmente. I martiri sono eroi. Il martirio dell’imam Husayn è un grande esempio di coraggio di fronte alla persecuzione, e non viene enfatizzato semplicemente il fatto che fu ucciso, ma che stava lottando contro l’oppressione. Coloro che muoiono per la causa di Dio, ottengono una grande condizione sociale. Quando una persona o un atto meritevole devono essere esaltati, si dice che quella particolare persona ha lo status di martire, o che quel particolare atto merita il premio di martirio. Nel linguaggio islamico, è considerato shahid (martire) solo quell’individuo che ha agito secondo gli standard propri dell’Islam. Solamente chi è morto cercando di ottenere i più alti obiettivi islamici ed è veramente motivato dal desiderio di salvaguardare i veri valori umani raggiunge questa posizione. Il martirio è la morte di quell’individuo che, pienamente consapevole dei rischi che corre, volentieri li affronta per amore di una causa sacra, o, come dice il Corano fi sabil Allah (sul sentiero di Dio). Il martirio è basato su due elementi: –        la vita è sacrificata per una causa –        il sacrificio è fatto consapevolmente. Il martirio è eroico e ammissibile, poiché risulta da un’azione volontaria, consapevole e autonoma. È l’unico tipo di morte il cui valore è più alto, più grande e più sacro della vita stessa.   [1] L’Imam è il capo spirituale e temporale della comunità sciita. Oltre ad avere funzioni più o meno analoghe a quelle del califfo sunnita in quanto capo dei credenti e custode della legge, assume anche delle valenze più squisitamente spirituali. [2] Husayn, secondogenito del quarto califfo Ali ibn Abi Talib, fu trucidato a Karbala in Iraq insieme ai suoi familiari il 10 muharram 61 (10 ottobre 680) dalle truppe del califfo Yazid che Husayn si rifiutò di riconoscere poiché considerato un usurpatore. Tratto da Lebanon, viaggio nella resistenza libanese (Arkadia, 2012) L’autore: Giovanni Carfora, laureato in Studi Arabo-Islamici presso “L’Orientale” di Napoli, nel 2008 e 2009 ha vissuto e viaggiato in Medio Oriente portando avanti le sue ricerche, in seguito pubblicate, sui movimenti di resistenza islamica in Libano e Palestina. Intenzionato ad approfondire ulteriormente le sue ricerche consegue nel 2012 la sua seconda laurea magistrale in Relazioni Internazionali. Developer and project manager, ha fondato ed è segretario generale della sede regionale della Campania di Assadakah- Centro Italo-Arabo e del Mediterraneo.

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