di Bruno Scapini
Di strettissima misura in Gran Bretagna vince il “no” all’Europa. Anche se per via di una sola manciata di voti, il referendum appena conclusosi ha dato il suo verdetto chiudendo la porta a Bruxelles.
Il popolo britannico, tuttavia, anche di fronte ad una prevalenza della Brexit non esce vittorioso da questa esperienza referendaria. L’elettorato britannico ha dimostrato, infatti, una sostanziale spaccatura sul fronte europeo, causa a sua volta di un possibile disequilibrio che non tarderà probabilmente a manifestarsi in termini di riorientamento politico sulla linearità dei futuri processi decisionali interni del Paese e sulla univocità di certe scelte ed opzioni a riguardo dell’atteggiamento da tenersi d’ora in avanti nei confronti dell’Europa.
L’uscita della Gran Bretagna dall’U.E. assume comunque un sensibile significato più per l’ Europa che per la stessa Gran Bretagna.
Al di là di un possibile cambiamento di Governo, quale coerente e diretta conseguenza della Brexit, e a dispetto di qualche tendenza altalenante dei mercati finanziari – provocata dalle inevitabili bolle speculative –, l’ economia britannica continuerà comunque a funzionare, forse con qualche aggiustamento tecnico da concordare con Bruxelles, ma certamente manterrà i propri punti di forza – e non sono pochi – a livello europeo ed internazionale. Nonostante qualche debolezza della bilancia commerciale, il settore dei servizi finanziari e bancari – in cui la Gran Bretagna eccelle – garantirà sempre un netto vantaggio per Londra, così come anche il complesso delle relazioni privilegiate da essa mantenute a livello economico con quell’insieme di Paesi legati alla corona britannica dalla consolidata formula del Commonwealth.
Ma gli effetti più evidenti della Brexit – nonostante i ricatti lanciati neanche molto velatamente da Junker – ricadranno invece proprio sull’Europa. Su quella Europa voluta con molta poca convinzione, con molte discrasie funzionali, con un deficit democratico mai finora superato, e con forti distorsioni sul piano economico per via di una politica di mercato via via allontanatasi sempre più dai principi fondanti indispensabili alla creazione di un vero mercato unico e alla istituzione di una vera area doganale comune per il libero scambio.
Infatti, le diffuse contestazioni provocate dalla politica agricola perseguita da Bruxelles, la preferenza accordata, nelle varie produzioni dell’agroalimentare, al sistema delle quote – anzicchè al principio economico del “vantaggio comparato”, le importazioni concesse a Paesi terzi per prodotti peraltro concorrenziali a quelli stessi europei – con netto pregiudizio per i produttori nazionali -, la gestione delle relazioni esterne per nulla riconducibile ad una politica estera comune e, sopratutto, la perdurante assenza di una coscienza unitaria a tutto vantaggio di una frammentaria percezione dell’identità europea, sono tutti elementi e fattori di diversità, di difformità e di incoerenza che a più livelli, e sotto più profili, hanno gradualmente e subdolamente minato quel processo politico che voleva vedere nel progetto di costruzione europea il grande ideale unitario utile ad evitare le drammatiche implicazioni di nuove rischiose divisioni che ben due Guerre Mondiali non sono riuscite a scongiurare.
Sembrerebbe, dunque, esercizio fatuo oggi quello di ricercare le cause del “no” britannico in qualche fatto o scelta o atteggiamento di qualche politico o Governo.
E’ questa una colpa condivisa che tutti i Paesi membri dovrebbero sentire per aver mancato sopratutto a quell’imperativo indefettibile che il sogno di una Europa unita avrebbe dovuto ispirare: creare cioè il nuovo “ uomo europeo”, il nuovo cittadino che, spogliatosi dei suoi particolarismi nazionali, avrebbe dovuto guardare al futuro con buona dose di fiducia e di ottimismo. Ma cosa avremmo dovuto attenderci da un Consiglio Europeo che, fedele osservante delle linee nazionali, nel momento in cui si sarebbero dovute tracciare le fondamenta delle nuova cittadinanza europea con il Trattato di Maastricht ( v. artt. 125 e seguenti ) ha preferito limitare lo sviluppo della dimensione europea nei settori dell’istruzione, della formazione e della cultura alla sola loro incentivazione “ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri” ? Una esclusione, questa, che ha confermato la prevalenza dell’interesse nazionale nella scuola, nei processi di reciproca acculturazione, come anche nella formazione di una base identitaria comune quale condizione imprescindibile per una condivisa percezione dei destini europei.
Sì, la chiusura britannica all’Europa è certamente un esito elettorale da rispettare. Ma acquista il sapore di un vero “schiaffo” a Bruxelles; e non tanto ai burocrati di Berlaymont – in fondo devoti e obbedienti esecutori di ordini impartiti dall’alto – ma a tutti quei politici nazionali che puntualmente presenti nei vari Consigli non hanno saputo valutare le tematiche dell’Europa al di là dei propri rispettivi confini nazionali, ovvero in un’ottica biecamente piegata al riconoscimento degli interessi nazionali. L’Europa è stata così maltrattata, asservita ai voleri dei gruppi di potere, additata a capro espiatorio delle colpe dei Governi nazionali senza un credibile atto di presa di coscienza sui veri obiettivi e traguardi da perseguire.
Il “no” di Londra incarna perciò oggi un diffuso malessere delle società europee; né può essere il suo portato sottovalutato nella prospettiva di un’eventuale ripresa del processo di edificazione dell’architettura europea. Occorrerà prima cambiare l’ uomo e poi le istituzioni. Queste ultime, benchè riformate, corrette e rivisitate in tutte le loro espressioni, nulla potranno se ci troviamo sempre l’uomo sbagliato a gestirle.
Il “no” britannico è l’esito di uno scollamento determinatosi tra istituzioni e popoli dell’Europa. E’ il rifiuto di un sistema politico che ha voluto delegare il potere di decidere a singole entità anzicchè affidarlo con metodi democratici al cittadino. E’ il segno tangibile di un gravissimo deficit di credibilità che ha portato il cittadino nazionale a sentirsi scavalcato da poteri non direttamente controllabili e che cerca ora, tornando “a casa propria“ , di ritrovare sè stesso e la sua originaria identità compromessa da un’ Europa che non ha saputo realizzare l’altra sovranazionale.
I “padri fondatori” tornano così ora a sedersi nuovamente al tavolo del dialogo. Sarà doverosa una approfondita riflessione per esaminare certamente le cause del rifiuto britannico, ma sopratutto – e lo si spera – per valutare le ragioni del diffuso malcontento che serpeggia tra le società europee per restituire loro – riproponendola in rinnovati termini – una convincente identità basata non tanto su un passaporto solo formalmente “europeo” , quanto su un titolo di viaggio che, andando oltre il mero senso della copertina, garantisca effettivamente quei diritti di cittadinanza europea in esso ricompresi, ma finora in fondo sempre e incredibilmente denegati.