(BRUNO SCAPINI) – Ore 0.1 locali di martedì dieci novembre. A Yerevan, capitale dell’Armenia, viene annunciato l’accordo che pone fine alle ostilità con l’Azerbaijan dopo oltre un mese di aspri combattimenti dallo scoppio del conflitto il 27 settembre scorso. A firmare il documento tre Paesi: Armenia, Azerbaijan e Russia. Vincitore unico della guerra: la Turchia di Erdogan.
Il territorio conteso del Nagorno Karabagh (Artsakh come lo chiamano gli armeni), viene di fatto oggi amputato e ceduto all’Azerbaijan con incluso il distretto considerato strategico della città di Shushi, storico insediamento urbano e centro religioso armeno.
Sebbene l’intervento della Russia sia risultato determinante per la cessazione delle ostilità, si celerebbe dietro di esso una serie di atti, fatti e misfatti che poco convincono sulla linearità di tale processo. L’esito? una sconfitta preannunciata!
Siamo tutti d’accordo sul fatto che ogni guerra sia una sconfitta della civiltà. Ma nel caso del Nagorno Karabagh la guerra era combattuta per la civiltà, non contro, essendo in gioco con essa i valori di libertà e di indipendenza di un popolo storicamente in lotta per vedersi riconosciuto il sacrosanto diritto all’autodeterminazione. Lo stesso principio sbandierato da noi europei, come dall’intera Comunità internazionale, in nome del quale gli Stati liberi hanno costruito lungo l’intero arco del secolo scorso le fondamenta delle proprie libertà e della democrazia. Con una misera firma, dunque, iniqua nei suoi essenziali contenuti, d’un tratto di tale diritto si è fatto ignominioso scempio.
E’ vero che si sono così salvate tante altre vite umane. E’ anche fondato affermare che la continuazione delle ostilità avrebbe di certo portato ad altre sofferenze, dolori e distruzioni, ma è altrettanto vero che la vita donata dai tanti giovani combattenti armeni ha subito in tal modo il più nefasto e vile degli oltraggi. A cosa è servito il loro sangue? Cosa si è ottenuto dal loro sacrificio se non l’umiliazione di una sconfitta preannunciata? Resta solo il loro sangue ora che, versato sulle zolle di una terra avida di libertà, potrà urlare domani al mondo vendetta per voce di quel fiore che da questo sangue nascerà.
Inutile nasconderselo. Non è il caso di ricorrere ad inutili eufemismi. Questa cessazione delle ostilità è una capitolazione. E’ la fine di un mito di libertà di un popolo, un popolo che più di tanti altri sedicenti cristiani ha portato alto per secoli il vessillo dell’insegnamento di quel Cristo che noi tutti europei dichiariamo, purtroppo senza neanche tanta convinzione, di voler difendere e prendere ad esempio per la vita.
Varie le ragioni che hanno portato a questo esito nefasto. Ragioni internazionali, di interesse geopolitico certamente, ma anche di ordine interno alla stessa Armenia il cui quadro politico ha dovuto scontare negli ultimissimi anni diverse criticità ancora irrisolte a seguito della c.d. “rivoluzione di velluto”. Criticità peraltro non ancora completamente metabolizzate per via del riemergere di vecchi fantasmi mai assopitisi. Una condizione, quest’ultima invero che si è rivelata non indifferente, né per la tenuta dell’assetto istituzionale del Paese, né per la ottimizzazione delle direttrici di politica estera. Il risultato? Il tardivo intervento di Mosca nel porre fine alle ostilità e la conseguente amputazione dell’Artsakh!
Sul piano tattico, nonostante lo strenuo eroismo dei soldati di cui la cronaca militare armena è piena, ha comunque pesato sul teatro di guerra la superiorità dei mezzi bellici impiegati da Baku che, forniti dalla Turchia e, insospettabilmente, da Israele, Paese anch’esso vittima di un Genocidio e che dovrebbe condividere per questo con l’Armenia le stesse sensibilità, hanno determinato il corso degli eventi nel modo che noi tutti ora conosciamo. Ma la novità assoluta di questo impietoso quadro bellico, che indubbiamente deve aver influito sull’esito della guerra, ma che influirà in prospettiva ancor più a livello strategico, risulta, ad un attenta disamina delle dinamiche regionali, l’affacciarsi sulla scena caucasica della Turchia imperante di Erdogan. Una presenza pesante ed ingombrante potrebbe definirsi, capace di dare la misura del prepotente protagonismo di un “panturanismo” inteso a fagocitare terre e popoli in nome di un nostalgico risveglio di gloria ottomana.
L’intervento di Ankara nell’Artsakh non dovrà però essere sottovalutato dai Paesi europei che, proni verso il risuscitato sultano di istanbuliota memoria, non vedono i gravi pericoli del ricatto al quale già oggi sottostanno o per cechi interessi commerciali legati alle fonte energetiche, o per tema di una presenza turca dentro i loro confini capace, esplodendo su ordini di Erdogan, di perpetrare qualsiasi tipo di nefandezze. Ma se in Europa si tace di fronte alle ormai chiare mire espansionistiche perseguite da Erdogan, determinato, come egli stesso ha dichiarato in un vergognoso silenzio occidentale, a “continuare l’antica opera dei padri” nello sterminio del popolo armeno, chi dovrebbe più preoccuparsi del fenomeno “Erdogan” dovrebbe essere per contro proprio la Russia di Putin. Con quest’ultima guerra, infatti, la Turchia è riuscita a mettere piede in un’area dichiarata sempre da Mosca di “interessi privilegiati” creando un innegabile precedente a proprio favore per contendere alla Russia l’influenza non soltanto su una sua ex Repubblica sovietica, l’Azerbaijan, ma su ogni altra questione che possa un domani insorgere nell’area caucasica e, in particolare, sui destini di quel che resta oggi dell’Artsakh, e della stessa Armenia, storica e irriducibile spina nel fianco della Turchia. Ma l’analisi appena svolta, non sarebbe completa se non si citasse il gravissimo pericolo che incomberebbe sulla integrità territoriale dell’Armenia, e sul più generale assetto del Transcaucaso, qualora venisse prevista tra le condizioni del recente accordo di “cessate-il-fuoco” – come sembrerebbe apprendersi da fonti non ancora accertate – la cessione da parte di Yerevan di un non meglio precisato corridoio tra l’Azerbaijan e la sua exclave del Nakhichevan, entità amministrativa azera, ma insita in territorio armeno e confinante con la Turchia. Una tale prerogativa, è evidente, favorirebbe la continuità territoriale della presenza turca in Azerbaijan ponendo, per contro, serie e gravi sfide alla salvaguardia della sicurezza regionale e dell’Armenia più in particolare.
Mosca, dunque, esce perdente da questa guerra non combattuta. Come perdente appare anche l’OSCE con una inutile quanto inconcludente mediazione che ha assunto nel corso di tutti questi anni l’aspetto più di una grottesca sciarada diplomatica che di una chiara azione di pacificazione nell’obiettivo riconoscimento delle storiche verità. Per la Russia, mette poi conto osservare ancora come la tradizionale capacità del Cremlino di reagire con immediatezza a un qualunque evento suscettibile di configurare una minaccia per i suoi confini, sembri oggi relegata al tempo delle crisi in Abkhazia, Ossezia e Crimea. Assistiamo ad una perdita di credibilità dunque? La visione alternativa potrebbe allora essere una sorda lasca indifferenza verso la causa armena del Karabagh, come i fatti dimostrano, purché Mosca non perda ovviamente la obbedienza né di Yerevan, né di Baku! Una indifferenza del resto ben condivisa dall’Occidente e da tutti i Paesi europei ancora timorosi questi di riconoscere il Genocidio armeno come tale o renitenti al tentativo di schierarsi apertamente in difesa di un popolo fratello per cultura e per fede. E non è questa forse una sconfitta preannunciata?
§ Bruno Scapini è nato a Roma nel 1949. Conseguita la laurea in Scienze Politiche presso l’Università La Sapienza, entra nella carriera diplomatica ricoprendo una molteplicità di rilevanti incarichi in Italia e all’estero. Più volte Console Generale, svolge importanti funzioni presso varie Ambasciate italiane e, da ultimo, quale Ambasciatore d’Italia in Armenia. Lascia la carriera diplomatica nel 2014, ma continua a occuparsi di politica internazionale tenendo conferenze e scrivendo articoli di analisi geopolitica.