(Bruno Scapini) – Dalla conclusione della guerra del 2020, l’Armenia, sconfitta, sta giocando una partita al tavolo della pace di evidente basso profilo. Messa all’angolo dalla tracotanza di un Azerbaijan vittorioso e prevaricatore, e spazzati via, con l’attacco a sorpresa del 19 settembre scorso, gli ultimi lembi di terra del Nagorno Karabagh – un’entità appena residuale di quello che sarebbe dovuto rimanere della piccola Repubblica auto-proclamatasi indipendente – Yerevan si vede ora non solo costretta a rinunciare a qualsiasi ambizione di recupero dell’Artsakh, sul quale Baku ha peraltro già steso senza indugio il proprio grigio velo di sovranità, ma anche obbligata a ben guardarsi da ulteriori brame di conquista da parte azera addirittura sul suo proprio territorio. E’ l’Armenia stessa oggi ad essere sotto minaccia!
La concupiscenza di Aliyev, l’intemperante Presidente azero, non è stata infatti appagata con il reinserimento del Karabagh entro i confini dell’Azerbaijan, ma si spinge oltre, fino a puntare su quelle terre del sud dell’Armenia, identificabili con la regione di Syunik, in vista di realizzare un collegamento diretto tra il Nakhichevan (exclave azera) e l’Azerbaijan. Un corridoio considerato strategico da Baku nella prospettiva sia di unire territorialmente le due entità, sia per rafforzare la storica velleitaria proiezione della Turchia (che ovviamente appoggia il progetto) verso l’Asia turcomanna.
La previsione contenuta nell’accordo tripartito raggiunto sotto l’egida di Mosca l’indomani della guerra del 2020, era in fondo più favorevole all’Armenia di quanto si potesse immaginare. L’intesa, infatti, si limitava a disporre a carico dell’Armenia, parte soccombente, un generale obbligo a prevedere la possibilità di costruire, previa intesa tra le parti, infrastrutture trasportazionali tra l’Azerbaijan e il Nakhichevan senza che la sovranità armena sul territorio ne risultasse intaccata.
Tuttavia, dopo l’annientamento avvenuto della Repubblica dell’Artsakh, quella originaria previsione risulterebbe ampiamente superata dalle nuove circostanze in cui i due contendenti oggi si trovano, con la conseguenza che il Governo armeno si vedrebbe costretto a rinegoziare la clausola del 2020 in ben altri termini e condizioni: la pretesa azera, infatti, si sarebbe ora estesa fino a comprendere un totale controllo della fascia di terra destinata alla realizzazione del tanto ambito Corridoio di Zangezur.
Che le intenzioni di Alijev al riguardo non siano tra le più pie e caritatevoli risulterebbe del resto dai timori recentemente espressi dallo stesso Segretario di Stato americano, Antony Blinken, il quale, in proprie recenti dichiarazioni, non avrebbe fatto mistero del rischio reale che l’Azerbaijan possa nuovamente attaccare l’Armenia, e questa volta sul suo stesso territorio! Una mossa che darebbe di certo concreto seguito al progetto di collegamento territoriale, ma, a vittoria ottenuta, alle condizioni imposte esclusivamente da Baku.
In queste non facili circostanze, e non disponendo al momento di nessuna via di scampo, il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, non saprebbe più a chi rivolgersi al fine di alvare il Paese da un’altra certa sconfitta che, in caso di nuova guerra con l’Azerbaijan, sarebbe deleteria per la stessa integrità territoriale del Paese. Se, infatti, guarda a Oriente non trova che un algido atteggiamento di indifferena da parte della Russia a causa della deriva occidentale intrapresa dal suo Governo sotto chiare pressioni di Washington. Se, al contrario, guarda ad Occidente, vede certamente, nell’invito ad aderire al consesso atlantista, una prospettiva di cooperazione, ma al prezzo di inimicarsi definitivamente la Russia, senza peraltro ottenere dai Governi atlantisti il necessario appoggio alle cause nazionali del Paese (riconoscimento del Genocidio e indipendenza dell’Artsakh) che essi in realtà non sono intenzionati a garantire non avendo l’Armenia altro da offrire in cambio se non la sua sola fedeltà cristiana. Del resto, il vergognoso silenzio dell’Europa a riguardo del violato diritto all’autodeterminazione dell’Artsakh e l’inerzia dei suoi governanti nel condannare l’aggressività bellica dell’Azerbaijan, come anche i tanti crimini contro l’umanità perpetrati impunemente dal suo regime, sono chiari ed inequivocabili segnali dell’infirgardaggine dei Governi occidentali interessati all’Armenia solo per quel tanto che serva a fare del Paese un’altra pedina in funzione anti-russa. Uno sviluppo, quest’ultimo, peraltro estremamente pericoloso che esporrebbe Yerevan al rischio di un diretto coinvolgimento nello scontro tra Est ed Ovest come peraltro già oggi si profila nello scacchiere del Caucaso meridionale.
Come uscire allora dal vicolo cieco in cui il Governo armeno è venuto a trovarsi? La risposta sembra arrivare proprio da parte del Primo Ministro Pashinyan. Questi, dopo il mancato incontro con Alijev a Granada, e a fronte di una tuttora pendente trattativa per definire i termini di un trattato di pace, ha lanciato, in occasione del IV Forum sulla Via della Seta, tenutosi il 26 e 27 ottobre scorso a Tbilisi, in Georgia, un progetto di cooperazione regionale dall’aulico titolo di “Crocevia della Pace”. Antefatto dell’iniziativa è, peraltro, la piattaforma di collaborazione “3+3”, patrocinata da Teheran, e intesa a favorire tra i Paesi dell’area (Turchia, Russia, Iran, Georgia, Azerbaijan e Armenia) un clima di pace, sicurezza e stabilità, ma – come precisato da parte iraniana – “senza ingerenze esterne”.
Non sembrerebbe a questo punto difficile poter cogliere nella proposta del Primo Ministro armeno – da ritenersi in ogni caso valida nella prospettiva di una normalizzazione delle relazioni regionali – l’ansia di soddisfare le pretese azere per il corridoio di Zangezur. Uno stratagemma, infatti, quello concepito da Pashinyan che, ricorrendo ad un progetto di cooperazione regionale, non esporrebbe il Paese al rischio di subire un’altra sconfitta qualora Baku dovesse dar seguito all’intenzione, per ora solo minacciata, di ricorrere ancora una volta alle armi per risolvere questa ulteriore questione territoriale. Il progetto di Pashinyan, volto alla creazione di vie trasportazionali inter-multi-modali nell’area, si baserebbe infatti su 4 principi fondamentali: mantenimento della sovranità sulle infrastrutture dei Paesi di transito, competenza nazionale per il controllo delle frontiere, utilizzo nazionale e internazionale delle strutture, e semplificazione delle procedure doganali e di frontiera.
Chiaro, dunque, il fine che Pashinyan si porrebbe: aggirare il rischio di un nuovo scontro militare con Baku attraverso la concessione di corridoi trasportazionali di cui l’Azerbaijan usufruirebbe, ma non in via bilaterale, bensì secondo modalità da concordarsi in un contesto multilaterale certamente più idoneo a garantire la già ora compromessa integrità territoriale dell’Armenia.
Per questa sua idoneità a contribuire ad un rilassamento delle tensioni tra i due Paesi, non c’è dubbio, dunque, che la proposta di Pashinyan acquisterebbe, con la sua capacità taumaturgica, il sapore di un ultimo esorcismo votato ad evitare il peggio. Mossa abile, quindi, che oltre a vanificare le pretese unilaterali azere sul corridoio di Zangezur, favorirebbe l’inserimento dell’Armenia nel più ampio circuito di cooperazione regionale. Uno sviluppo, quest’ultimo, che indurrebbe a immaginare, anche se oggi solo allo stato embrionale, una “terza via” che Yerevan potrebbe adottare nelle relazioni internazionali. Un dispositivo tattico che, lungi dal legare il Paese ad uno schieramento strategico, inducendolo a sbilanciarsi o verso Mosca o verso Washington, si rivelerebbe nei fatti capace di preservare un certo margine di autonomia nazionale nell’ambito di un contesto regionale decisamente avviato a ritagliarsi un suo proprio ruolo nelle future dinamiche euro-asiatiche.
Peccato, se si dovesse pervenire ad un generale consenso sul progetto da parte di tutti gli attori regionali, che questo nuovo sviluppo nella politica estera di Yerevan venga a realizzarsi al prezzo di una menomazione sia dell’identità nazionale armena, causata dalla perdita di una terra di insediamento storico (l’Artsakh), sia di quella giustizia storica rappresentata dal riconoscimento del Genocidio del 1915 destinato a perdere di priorità nella prevalente visione economico-commerciale insita nelle nuove relazioni da intrattenersi con Ankara. Una responsabilità storica, questa, per la quale parrebbe lecito chiedersi se l’attuale Premier armeno saprà mai un giorno rispondere alla coscienza nazionale del suo Paese.