(Bruno Scapini) – Requisitoria a tutto campo può definirsi l’intervista dell’8 febbraio scorso rilasciata da Putin al giornalista americano Tucker Carlson. Nell’assenza di contatti personali diretti con la Casa Bianca – un vuoto diplomatico tra Mosca e Washington che ormai si protrae almeno dallo scoppio della guerra in Ucraina – l’intervista viene ad assumere oggi un indubbio rilievo sul piano della comunicazione politica. Putin deve, infatti, aver visto nell’iniziativa offertagli da Carlson l’occasione per inviare al di là dell’Atlantico un messaggio di sostanziale “disponibilità” al dialogo. Nessun accordo è impossibile, sembra dire il Presidente russo, purché ci si attenga pragmaticamente alla realtà dei fatti.
Partendo da una posizione di forza, derivatagli dal consolidamento delle posizioni militari acquisite più recentemente sul terreno, Putin lascia chiaramente intendere come una sconfitta della Russia in Ucraina sia storicamente (oltre che militarmente) impossibile. Tanti gli elementi, infatti, che agirebbero da collante tra i due popoli; il che renderebbe pressoché inimmaginabile una rinuncia da parte della Russia a un Paese che per vincoli sociali e religiosi e per legami culturali ed economici è sempre stato parte integrante della Russia fin dalle epoche più lontane del Medio Evo. A conferma di una tale visione, Putin porta avanti – rischiando peraltro di screditare il ruolo storico di suoi illustri predecessori come Lenin e Stalin – la tesi della creazione artificiale dello Stato ucraino. Una concezione di statualità che cerca senza troppe mezze parole di smantellare; e lo fa nel convincimento che proprio la mancata corretta valutazione da parte occidentale di tale circostanza abbia indotto Washington e i suoi alleati della NATO ad intraprendere un’avventura militare con Kiev.
Tuttavia, massima è la consapevolezza da parte del leader russo – da come traspare dal tenore delle sue dichiarazioni – sul vero obiettivo che Washington si è posto ingaggiando questa guerra per procura: indebolire la Russia a tutti i costi in modo da anestetizzarne il ruolo di grande potenza a tutto vantaggio di una dominante leadership americana. Una leadership che, nel contesto di un mondo unipolare, si percepisce ormai invalidata e traballante a fronte della forti spinte di crescita dei Paesi emergenti.
Una prospettiva, questa, che del resto troverebbe fondatezza proprio nell’avvento sulla scena internazionale – a superamento avvenuto della fase critica attraversata da Mosca con il collasso sovietico del 1991- di una Russia non solo ripresasi dai traumi interni causati dalla storica transizione dal socialismo al liberismo – ma capace di imporsi con un ruolo assertivo in politica estera e di svolgere un protagonismo economico di ampio respiro in virtù delle enormi risorse naturali e in capitale umano di cui il Paese innegabilmente dispone.
Nessuna ambizione, per contro, traspare nel racconto di Putin per un espansionismo aggressivo verso l’Europa, come peraltro una certa “élite” mediatica occidentale vorrebbe far intendere onde giustificare questa azione di singolarizzazione nei confronti della Russia. Il capo del Cremlino, del resto, ha decisamente declinato qualunque interesse a rivendicare diritti sui Paesi Baltici e tanto meno sulla Polonia. Una reazione russa sarebbe ipotizzabile – ha voluto qui precisare – soltanto in caso di un attacco della NATO all’integrità territoriale della Federazione. Tesi plausibile, peraltro, visto che nella “escalation” dei fatti e delle situazioni verificatisi negli ultimi anni, è la sindrome di accerchiamento da parte della NATO che ha guidato la risposta della Russia alle iniziative dell’Occidente. Ne sarebbero la prova, tra l’altro, le ripetute ondate di espansione della NATO avvenute dal 1997 in poi.
In conclusione, Putin ribadisce a riguardo dell’ostilità di un Occidente preda della propria arroganza – posizione più volte emersa con chiarezza nella narrativa – che una intesa è pur sempre fattibile. È solo questione di volontà, afferma; e se il timore di subire una umiliazione dovesse risultare di impedimento ad una intesa, sarà sempre possibile – lascia intendere Putin – trovare un’“opzione dignitosa”. Questo, dunque, sembrerebbe il messaggio principale che Putin abbia inteso lanciare a Washington con questa intervista. E non a caso ha voluto affidarlo ad un giornalista di provata fedeltà a Donald Trump, ovvero al candidato oggi preferenziale nella corsa elettorale alla Casa Bianca. Ben nota è, infatti, la posizione del “tycoon” a riguardo della guerra in Ucraina: pervenire alla pace dando avvio ad un immediato tavolo negoziale. Una speranza fallace? Non proprio verrebbe da dire, considerato che proprio Trump nel suo primo mandato ha dato ampie prove di non volersi mai imbarcare in sconsiderate avventure belliciste al contrario di quanto fatto da molti altri suoi predecessori!
Resta da sperare che il messaggio che Carlson porterà a Washington venga seriamente ascoltato. Il che non è cosa scontata, considerato che già da qualche fonte si ventilano sanzioni nei suoi confronti per una intervista eseguita fuori dai canonici paradigmi del pensiero unico occidentale.