Ostaggi e prigionieri: il potere delle parole nella narrazione del conflitto tra Hamas e Israele


Condividi su

(Raimondo Schiavone) – C’è un piccolo dettaglio che forse è sfuggito ai più guardando il TG della sera o sfogliando i quotidiani italiani: la sottile ma potentissima, differenza linguistica con cui i media trattano il conflitto israelo-palestinese. Un gioco di parole così raffinato che sembra quasi casuale.

Gli israeliani rilasciati da Hamas sono sempre ostaggi, mentre i palestinesi rilasciati da Israele sono semplicemente prigionieri. Curioso, vero? Uno potrebbe pensare che la differenza sia solo una sfumatura, un tecnicismo. Ma la realtà è che non lo è affatto.

Perché uno è un ostaggio e l’altro è un prigioniero? Perché la parola “ostaggio” evoca immediatamente un’idea di innocenza, di ingiustizia, di vittima in balia dei carnefici. “Prigioniero”, invece, lascia spazio a tutt’altro immaginario: chi sta in prigione ha fatto qualcosa per finirci, giusto?

Così, senza nemmeno accorgercene, ci viene inculcata una narrazione ben precisa: gli israeliani sono vittime innocenti rapite da terroristi senza scrupoli, mentre i palestinesi sono detenuti perché qualcosa l’avranno pur combinata.

E non importa se tra questi “prigionieri” ci sono minorenni, giornalisti, medici, e gente che non ha mai avuto un processo degno di questo nome. La narrazione è già impostata: ostaggi vs. prigionieri.

Ma non finisce qui: nei servizi televisivi vengono raccontate nei minimi dettagli le sofferenze degli ostaggi israeliani. Le interviste ai loro familiari, i racconti delle torture subite, la paura, il trauma. Tutto assolutamente legittimo, sia chiaro. E i palestinesi? Sì, certo, in qualche angolo remoto di internet si trova qualche articolo sulle torture sistematiche inflitte ai detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Ma sui TG, in prima serata? Silenzio quasi assoluto. Perché il dolore, si sa, è selettivo.

Non si inizi, poi, con la solita litania del “sono tutti esseri umani”, perché questo lo sappiamo benissimo.  Sappiamo anche che il modo in cui le informazioni vengono presentate serve a costruire una realtà preconfezionata nelle nostre menti.

E così, con questo semplice trucco linguistico, i media occidentali — e in particolare quelli italiani, sempre servili nei confronti delle narrazioni dominanti — ci aiutano a metabolizzare il pensiero unico: Israele ha ragione, i palestinesi sono sempre un po’ più colpevoli.

Quindi la prossima volta che qualcuno accende la Tv o apre un giornale, ci faccia caso: le parole non sono mai scelte a caso. E dietro ogni parola c’è un’intenzione ben precisa.


Condividi su