
(Francesco Levoni) – La fotografia che ha fatto il giro del mondo ritrae Donald Trump, sorridente e in abito scuro, stringere la mano ad Ahmad al Sharaa — noto ai più con il suo nome di battaglia, Abu Mohammed al-Jolani — un tempo leader di una branca siriana di al-Qaeda e ricercato dagli Stati Uniti con una taglia da 10 milioni di dollari. Un gesto che fino a pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. Ma oggi, nel Medio Oriente che cambia, la logica della geopolitica sta sostituendo i dogmi della guerra al terrore.
L’incontro è avvenuto a Riad, con la regia del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MBS) e la benedizione, telefonica ma decisiva, del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Un summit dai contorni storici, che ha segnato — di fatto — il ritorno ufficiale della Siria nella diplomazia internazionale. Sotto la nuova guida di al Sharaa, la Siria si propone come attore chiave in una strategia regionale finalizzata a isolare l’Iran e contenere la minaccia dell’ISIS, mentre i Paesi arabi vengono spinti verso una nuova ondata di normalizzazioni con Israele.
Trump è arrivato in Medio Oriente con l’obiettivo dichiarato di attrarre investimenti e affari, ma il suo tour ha svelato un’ambizione più ampia: riscrivere gli equilibri strategici dell’intera regione. L’Arabia Saudita ha promesso 600 miliardi di dollari in investimenti diretti negli Stati Uniti, mentre il Qatar ha annunciato uno storico pacchetto di scambi da 1.200 miliardi di dollari, comprendente il più grande ordine nella storia della Boeing, progetti congiunti sul quantum computing e accordi per la difesa, tra cui la produzione di droni con Raytheon e General Atomic.
Ma dietro il pragmatismo economico, si muove una visione politica che punta a stabilizzare il Medio Oriente rimuovendo le cause storiche dell’instabilità: l’influenza iraniana, la frammentazione del fronte palestinese, l’ingovernabilità della Siria e il permanere di enclavi jihadiste.
Classe 1982, nato in Arabia Saudita da genitori siriani, al Sharaa ha percorso tutte le tappe della jihad globale. Dopo aver abbandonato gli studi universitari, si unì ai volontari arabi in Iraq durante l’occupazione americana, venendo incarcerato in due famigerate prigioni, Abu Ghraib e Camp Bucca, dove incontrò il futuro leader dell’ISIS Abu Bakr al-Baghdadi.
Nel 2011, tornato in Siria, fondò Jabhat al-Nusra, affiliata ad al-Qaeda, protagonista di efferate azioni contro il regime di Bashar al-Assad ma anche di numerosi crimini contro civili e operatori umanitari. Nel 2016, avviò una trasformazione radicale: si staccò da al-Qaeda, fondò Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e cominciò un lungo processo di rebranding personale e politico. Al posto della jihad globale, Jolani ha indossato abiti civili, promesso rispetto per le minoranze e adottato un linguaggio più istituzionale.
Nel dicembre 2024, con l’appoggio di forze ribelli e una rapidissima offensiva, conquista Damasco e si autoproclama presidente della Siria, ponendo fine — almeno simbolicamente — a 50 anni di dominio baathista. La sua ascesa ha coinciso con l’uscita di scena di Assad, ormai isolato e screditato anche tra gli alleati russi e iraniani.
La domanda che percorre le cancellerie di mezzo mondo è se Jolani sia un ex jihadista redento o un pragmatico stratega, capace di mutare pelle per sopravvivere. Secondo l’analista Charles Lister del Middle East Institute, HTS è oggi “una struttura ibrida tra potere militare e autorità civile, con un controllo assoluto sulla provincia di Idlib”. Amnesty International e Human Rights Watch denunciano però sistematiche violazioni dei diritti umani da parte delle sue milizie.
Jolani ha promesso elezioni, pluralismo religioso e riconoscimento dei diritti delle donne. Ma il suo governo resta dominato da ex signori della guerra e settori radicali, mentre la presenza di jihadisti stranieri in Siria, molti dei quali detenuti nei campi del nord, rimane una bomba a orologeria. Trump, però, ha deciso di fidarsi: ha rimosso le sanzioni contro Damasco e aperto al riconoscimento diplomatico, chiedendo in cambio la gestione dei campi ISIS e l’adesione agli Accordi di Abramo con Israele.
L’iniziativa americana non ignora Teheran. Washington ha rilanciato la proposta di un nuovo negoziato sul nucleare, con l’ipotesi — riportata dal New York Times — di una joint venture USA–Paesi arabi per il monitoraggio dell’arricchimento dell’uranio iraniano a scopi civili. Gli ayatollah ci pensano: accettare potrebbe significare la fine dell’isolamento; rifiutare, nuove sanzioni devastanti.
L’obiettivo di Trump è chiaro: svuotare di senso la mezzaluna sciita iraniana, riconciliare i sunniti con Israele e ridurre l’instabilità regionale. Ma restano due nodi irrisolti: la questione palestinese — ancora priva di un piano credibile — e la riluttanza di Benjamin Netanyahu a condividere il potere con i partner arabi, temendo di perdere centralità politica.
Jolani, ora noto come presidente Ahmad al Sharaa, si presenta come la nuova guida di una Siria che sogna la normalizzazione. A Riad, ha offerto alle compagnie americane accesso ai pozzi petroliferi siriani e ha chiesto l’ingresso del Paese nella Lega Araba, con piena legittimazione internazionale. In cambio, promette lotta all’estremismo e dialogo con Israele.
Una scommessa pericolosa, che potrebbe fallire sotto il peso delle contraddizioni interne o delle vendette settarie ancora latenti. Ma per ora, la stretta di mano con Trump è il segnale più potente del cambio di paradigma: l’ex jihadista, una volta braccato dai droni e dai marines, è oggi l’interlocutore principale degli Stati Uniti nel cuore del Medio Oriente.
Il futuro dirà se l’enigma Jolani si risolverà in una nuova stagione di pace o in un ulteriore inganno geopolitico. Di certo, la politica americana ha deciso di correre il rischio.