
(Raimondo Schiavone) – La Libia torna a bruciare. Mentre il mondo guarda altrove, il Paese nordafricano precipita in una nuova escalation militare che minaccia di far deflagrare definitivamente la fragile tregua mantenuta a fatica negli ultimi anni. A far scattare l’allarme è stata la dichiarazione di mobilitazione generale da parte della città di Misurata, cuore strategico e simbolico della resistenza anti-Haftar. Nella notte, colonne di veicoli militari appartenenti alle forze del generale Khalifa Haftar sono state avvistate in movimento da Sirte verso ovest, segno inequivocabile di una possibile offensiva imminente.
Quello che sembrava un equilibrio congelato, si sta rapidamente sciogliendo. Le autorità locali di Misurata hanno invitato i cittadini a prepararsi a “difendere la città”, evocando i giorni più bui della guerra civile post-Gheddafi. A Tripoli, le milizie fedeli al governo riconosciuto internazionalmente sono in stato d’allerta, mentre sui social si moltiplicano i video non verificati di convogli armati in marcia e di ricognizioni aeree nei pressi di Bani Walid e Abugrein.
La ripresa delle ostilità non è solo il sintomo dell’instabilità cronica libica, ma il risultato diretto del fallimento occidentale. A oltre dieci anni dalla guerra del 2011, che ha portato alla caduta di Muammar Gheddafi con l’appoggio della NATO, la Libia è un Paese spezzato, attraversato da milizie tribali, gruppi jihadisti, interessi esteri contrapposti e una popolazione stremata.
L’Occidente, dopo aver distrutto senza ricostruire, si è ritirato lasciando spazio a nuovi attori: Russia, Turchia, Emirati Arabi e Qatar giocano da anni una partita a scacchi sulle macerie libiche. Haftar, sostenuto apertamente da Mosca e Abu Dhabi, non ha mai accettato il compromesso, mentre il governo di Tripoli sopravvive grazie al sostegno turco, con cui ha firmato accordi anche in ambito energetico e marittimo.
La guerra in Libia, in questo nuovo slancio, rischia di travolgere ciò che resta dello Stato, con conseguenze regionali devastanti: destabilizzazione del Sahel, nuove ondate migratorie, minaccia jihadista in espansione e un ulteriore collasso economico.
E intanto, in Europa, le cancellerie tacciono o rilasciano dichiarazioni anodine, fingendo stupore davanti a un disastro che hanno contribuito a generare. La sconfitta dell’Occidente in Libia non è solo militare o politica: è la testimonianza di una strategia miope, di un colonialismo travestito da democrazia esportata, e di un disimpegno codardo dopo aver acceso la miccia.
La Libia, oggi, è il simbolo di una guerra mai finita. E ora il boato si sente di nuovo.