
(Raimondo Schiavone) – Non servono giri di parole. Benjamin Netanyahu ha oltrepassato il limite, consapevolmente. Ha spinto Israele e l’intero Medio Oriente verso un abisso da cui sarà difficile uscire. È lui, insieme al suo gemello politico Donald Trump, a portare la responsabilità storica dell’escalation più grave degli ultimi decenni. L’attacco massiccio dell’aviazione israeliana contro obiettivi strategici e nucleari in Iran non è stato un gesto difensivo. È stato un atto di guerra deliberato. Un atto folle.
In risposta, l’Iran non ha tremato. Ha risposto con forza, lanciando decine di missili balistici e droni contro Israele. Le esplosioni a Tel Aviv, Haifa e nella regione di Be’er Sheva sono solo l’inizio. Teheran ha promesso che gli attacchi continueranno. La Repubblica Islamica, a differenza di Israele, non ha paura della lunga durata. Gli iraniani sono abituati alla tensione, alla pressione internazionale, alle sanzioni, alla guerra psicologica. Ma sono anche abituati a resistere. E ora, più che mai, sono determinati a reagire.
La reazione iraniana non è solo militare, è anche popolare, culturale, spirituale. Da Qom a Teheran, da Isfahan a Mashhad, le piazze si sono riempite. Milioni di persone, molte delle quali giovani, sono scese per le strade con un messaggio chiaro: il regime sionista ha varcato il confine del lecito e pagherà un prezzo altissimo. Non sono manifestazioni costruite dal regime. Sono la risposta organica di una nazione colpita, ferita ma non piegata.
Non è un caso se in tutta l’area si è attivata l’intera rete sciita: Hezbollah in Libano ha già bombardato il nord di Israele, gli Houthi in Yemen stanno colpendo il traffico navale nel Mar Rosso, e in Iraq le milizie sciite preparano l’intervento su larga scala. È l’Asse della Resistenza che si muove compatto, come un corpo unico. Nessuna divisione, nessuna esitazione.
Il discorso dell’Ayatollah Ali Khamenei – trasmesso in diretta da tutti i media di Stato – è stato il più duro mai pronunciato. Ha definito Netanyahu “criminale sionista” e ha dichiarato che l’attacco sarà ricordato come il giorno in cui “Israele ha scelto di morire”. Nessun riferimento diplomatico, nessuna apertura. Solo una promessa: “Risponderemo. Risponderemo ovunque, con ogni mezzo, senza limiti di tempo”. È il punto di non ritorno.
Eppure, solo pochi anni fa, l’Iran cercava un’altra via. Le aperture internazionali, i negoziati sul nucleare, gli accordi economici con Europa, Russia, Cina. Il paese si stava aprendo. Il suo popolo voleva vivere, studiare, viaggiare, costruire. Ma questo percorso è stato minato da un progetto ben più ampio: distrarre il mondo da Gaza, dalle sue macerie, dai bambini dilaniati, dai crimini che Israele continua a perpetrare con il silenzio complice dell’Occidente. Gaza è il grande rimosso. Netanyahu ha acceso un’altra guerra per spegnere le luci su quella che stava perdendo.
Trump, dal canto suo, applaude. Gli serve un nemico, un fronte, un pretesto. Vuole mostrare muscoli e bombe. Ma questa volta il copione è diverso. L’Iran non è l’Iraq
L’Iran ha droni, missili, alleati, industria militare avanzata, determinazione, orgoglio. E soprattutto, ha una visione strategica di lungo periodo. Non è una tigre ferita. È una civiltà che non si arrende.
Il mondo dovrebbe fermarsi un momento a riflettere. Questo non è un conflitto tra due nazioni. È una guerra tra due visioni del mondo: da un lato il cinismo nichilista dell’occupazione permanente, dall’altro una resistenza alimentata dalla fede e dalla memoria storica. E in mezzo, un’umanità che rischia di essere annientata.
Chi ancora crede nella pace dovrebbe guardare la realtà in faccia: Netanyahu è il peggior nemico del popolo israeliano. E chi oggi tace, chi giustifica, chi minimizza, è complice di una tragedia che travolgerà tutti.
Perché questa volta, l’Iran non farà marcia indietro.
E la storia, come sempre, presenterà il conto.