Israele bombarda il Libano nonostante il cessate il fuoco: modello per Gaza


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Malgrado il cessate-il-fuoco proclamato il 27 novembre 2024 tra Libano e Israele – mediato da Stati Uniti e Francia – che avrebbe dovuto sancire la fine delle ostilità tra Hezbollah e le forze israeliane, le attività militari israeliane nella zona meridionale del Libano continuano con regolarità. L’esercito israeliano ha affermato di aver colpito nelle ultime ore infrastrutture ritenute «terroristiche» appartenenti a Hezbollah nella regione di Nabatiyeh nel Libano meridionale.

Le cifre parlano chiaro: dopo l’accordo di cessate-il-fuoco, l’ufficio dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights (OHCHR) ha verificato oltre 100 vittime civili in Libano uccise dalle azioni israeliane nella regione meridionale.  La tensione è tale che alcuni analisti definiscono il regime più come una “tregua intermittente” che come una vera pace.  

Questo modello operativo israeliano viene presentato come un possibile schema applicabile anche alla regione di Gaza, contro Hamas: ossia un cessate-il-fuoco che viene formalmente istituito, ma che lascia al paese israeliano una «licenza operativa» nel tempo per condurre raid, colpire infrastrutture nemiche e perseguire obiettivi strategici anche sotto la soglia di una guerra aperta. Nel Libano, infatti, Israele sostiene che l’attacco a Nabatiyeh abbia colpito elementi di Hezbollah e che quindi rientri nella legittima difesa, pur al di fuori di una guerra dichiarata.  

Da un lato, questo approccio consente a Israele di mantenere pressione permanente su ciò che esso considera una minaccia recidiva, impedendo ricostruzioni e preparazioni nemiche. Dall’altro, il prezzo pagato è elevato in termini di continuità del conflitto, della distruzione di infrastrutture civili e della normalizzazione di attacchi «mordi e fuggi» in un territorio formalmente in pace. Ad esempio, un rapporto di Amnesty International ha documentato che dall’accordo di novembre 2024, ci sono stati decine di civili uccisi, villaggi evacuati, e un contesto nel quale il Libano meridionale resta sotto il fuoco – formalmente non in guerra, ma operativamente sotto assedio.  

La scelta di applicare un modello simile a Gaza avrebbe implicazioni molto serie: un cessate-il-fuoco che conserva, al contempo, una capacità aggressiva latente affidata a Israele per intervenire quando ritiene necessario, senza tornare a una guerra a tutto campo. Ciò permette di perseguire obiettivi — come la distruzione di infrastrutture nemiche, la prevenzione di riarmo e la limitazione della libertà operativa dell’avversario — mantenendo i costi politici e militari di una guerra aperta al minimo. Tuttavia, questo modello solleva questioni rilevanti: la responsabilità verso i civili, la legittimità delle azioni preventive, la sovranità dello Stato colpito, e il rischio che la «pace apparente» diventi una condizione permanente di bassa intensità conflittuale senza vero sbocco politico.

In conclusione, il caso del Libano dimostra che un cessate-il-fuoco non significa necessariamente fine delle operazioni militari, ma può trasformarsi in un regime di «tregua attiva» in cui la parte forte (Israele) conserva margine per attacchi selettivi. Se applicato a Gaza, ciò suggerisce una strategia che punta sul lungo termine, sulla compressione delle capacità nemiche e sulla pressione continua, invece che sulla guerra totale o sulla completa pacificazione. Il che, in un contesto come Gaza, solleva interrogativi etici, umanitari e politici di grande portata.


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