Bar Kuperstein ha 23 anni e il viso scavato di chi ha visto troppo. Era stato rapito al Nova Festival il 7 ottobre 2023, nella giornata che segnò l’inizio della guerra tra Israele e Hamas, e ha ritrovato la libertà solo due anni dopo, il 13 ottobre 2025. Oggi, davanti alle telecamere della tv pubblica israeliana Kan, racconta un incubo che getta una luce sinistra su entrambe le parti del conflitto: la violenza dei sequestratori di Hamas e il peso, a volte tragico, della propaganda israeliana.
«Ci hanno messi con le spalle al muro e ci hanno riempiti di botte. Ripetevano: “Occhio per occhio, dente per dente”. Dicevano che era colpa di Ben Gvir». Nelle parole di Kuperstein torna più volte il nome di Itamar Ben Gvir, il ministro ultranazionalista della Sicurezza nazionale israeliana, noto per le sue posizioni di estrema durezza nei confronti dei detenuti palestinesi. Quelle dichiarazioni, pronunciate pubblicamente per ribadire il “pugno di ferro” del governo Netanyahu, sembrano aver attraversato il confine e si sarebbero trasformate in un pretesto di vendetta nelle celle di Gaza.
Il racconto è agghiacciante. «Mi hanno bendato, portato in una stanza e colpito due volte in faccia. Sono caduto, mi hanno trascinato per le gambe, mi hanno calpestato e umiliato. Poi mi hanno legato le ginocchia a un palo e hanno detto: “Ora sentirai quello che provano i nostri prigionieri”. Mi hanno rotto le ossa dei piedi. Non ho potuto camminare per un mese». Le sue parole, riprese da Haaretz e The Times of Israel, hanno scosso l’opinione pubblica israeliana e innescato uno scontro politico immediato alla Knesset.
L’opposizione ha accusato Ben Gvir di essere moralmente corresponsabile di una spirale di violenza che, alimentata da retoriche punitive, ha finito per colpire persino i suoi concittadini ostaggi di Hamas. Il ministro, come riportano le agenzie, ha respinto con forza ogni accusa: «I media stanno adottando la narrativa di Hamas. Non avevano bisogno di scuse per torturare e uccidere. Tutto questo accadeva molto prima delle mie riforme», ha dichiarato.
Ben Gvir non ha mai nascosto la propria linea. Negli ultimi due anni ha imposto misure sempre più dure nelle carceri israeliane, sostenendo di voler “cambiare l’equazione” e di “non concedere privilegi ai terroristi”. Nell’estate del 2024, secondo The Times of Israel, aveva rivendicato come “una buona cosa” il sovraffollamento carcerario dei detenuti palestinesi, ridotti spesso a dormire su materassi a terra. Pochi mesi dopo, l’Alta Corte di Giustizia israeliana lo aveva però richiamato all’ordine, stabilendo che lo Stato non stava adempiendo al suo obbligo di nutrire adeguatamente i prigionieri.
Il contrasto tra la linea dura del ministro e i principi di diritto umanitario è diventato uno dei fronti più controversi della politica israeliana. In Aula, Ben Gvir ha accusato l’opposizione di “sottomissione ai terroristi”, definendo le carceri del passato “campi estivi a cinque stelle”. Le sue parole hanno acceso scontri verbali e fisici, culminati con l’espulsione di alcuni deputati.
Mentre la politica discute, la testimonianza di Kuperstein resta un pugno nello stomaco. “Lo facevano per colpa di Ben Gvir”, gli ripetevano i suoi torturatori. È un paradosso feroce: un cittadino israeliano picchiato da Hamas in nome di un ministro israeliano.
Dietro quel cortocircuito, si legge il dramma di una guerra che ha oltrepassato i confini militari per insinuarsi nelle coscienze, nei corpi e nelle prigioni.
Come scrive Le Monde, le condizioni di detenzione – da entrambe le parti – sono diventate uno dei terreni più oscuri del conflitto israelo-palestinese: in Israele, celle sovraffollate e riforme punitive; a Gaza, prigionieri israeliani usati come simboli e strumenti di vendetta. In mezzo, vite sospese come quella di Bar Kuperstein, che oggi cerca di raccontare l’inimmaginabile.



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