Colombia. La sfida del Fossil Fuel Treaty


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(Federica Cannas) – La COP30 di Belém ha lasciato una sensazione ambivalente. Da un lato, la conferma della volontà globale di rafforzare i finanziamenti per l’adattamento, dall’altro l’assenza, ancora una volta, di un impegno esplicito alla fuoriuscita dai combustibili fossili. Questa mancanza pesa, soprattutto perché arriva in un momento in cui il dibattito internazionale non può più permettersi giri di parole. Paralizzata dai veti incrociati dei grandi produttori, la conferenza ha evitato di affrontare il nodo centrale dell’emergenza climatica: carbone, petrolio e gas.

In questo scenario la Colombia ha scelto di avere un ruolo scomodo, ma necessario. Tradizionalmente uno dei maggiori esportatori di carbone al mondo, il Paese guidato da Gustavo Petro ha assunto negli ultimi anni una posizione radicale: essere la prima nazione ad alta dipendenza dalle fonti fossili a chiedere apertamente un trattato globale di non proliferazione dei combustibili fossili, il cosiddetto Fossil Fuel Non-Proliferation Treaty. Una proposta che razionalizza ciò che l’Accordo di Parigi non è mai riuscito a rendere vincolante: lo stop alle nuove espansioni fossili, la definizione di un calendario di eliminazione graduale, la garanzia di una transizione equa per lavoratori e comunità.

La svolta era già stata annunciata da Petro alla COP28 di Dubai, dove la Colombia ha aderito al blocco di Stati che chiedono l’apertura dei negoziati su un Trattato globale. Le sue dichiarazioni erano state nette. Se l’umanità prende sul serio il limite di 1,5 °C, non può più permettersi nuovi progetti di esplorazione petrolifera o gasifera. Non può farlo nessuno, nemmeno un Paese la cui economia dipende ancora da carbone e idrocarburi. Petro ha insistito su un punto che oggi pochi governi vogliono pronunciare apertamente. Le riserve già scoperte, se pienamente sfruttate, spingerebbero il pianeta verso un riscaldamento superiore ai 3 °C. Dunque la prima vera azione climatica non riguarda l’efficienza o il mercato del carbonio, ma la riduzione dell’offerta.

Con queste premesse si arriva alla COP30, dove la Colombia non solo conferma la propria linea, ma la porta oltre. Il governo colombiano, insieme ai Paesi Bassi, ottiene l’inserimento di un passaggio cruciale: il sostegno alla convocazione della prima conferenza mondiale dedicata all’eliminazione progressiva dei combustibili fossili. Una conferenza che si terrà il 28 e 29 aprile 2026 a Santa Marta, città che oggi ospita uno dei porti carboniferi più importanti del Paese. La scelta del luogo, già di per sé, ha un valore politico evidente. Proprio da uno dei simboli dell’economia fossile colombiana si proverà a lanciare una transizione globale che non sia più retorica, ma pianificazione concreta.

A Santa Marta governi nazionali, città, regioni e istituzioni aderenti al Fossil Fuel Treaty si confronteranno su ciò che alla COP30 non si è voluto scrivere: tempi, modalità e strumenti finanziari per chiudere progressivamente miniere, giacimenti, pozzi e infrastrutture fossili. Non si discuterà in astratto della riduzione delle emissioni, ma del phase-out materiale delle fonti fossili. Per la prima volta un summit ufficiale metterà al centro quanto “produrre”, e soprattutto quanto smettere di produrre.

Santa Marta sarà anche il laboratorio in cui testare la praticabilità politica del trattato. Il meccanismo delle COP richiede il consenso unanime, che di fatto concede ai grandi esportatori di fossili un potere di veto permanente. La conferenza colombiana, invece, nasce con l’intento dichiarato di costruire un percorso a più velocità. Chi vuole muoversi, può farlo subito; chi è pronto a impegnarsi su tappe specifiche, avrà uno spazio negoziale dedicato; chi vuole ancora sottrarsi, dovrà comunque confrontarsi con un processo politico che cresce al di fuori dell’arena paralizzata dell’ONU.

Per la Colombia questa leadership rappresenta una scommessa audace ma coerente. Il Paese è un esportatore significativo di carbone, con territori e comunità intere che dipendono ancora da quel settore. Proprio per questo la sua scelta ha una forza simbolica particolare. Non è una posizione di comodo e Petro ha ripetuto più volte che la transizione non può essere scaricata sui Paesi del Sud globale senza nuovi strumenti finanziari e senza un modello internazionale che riconosca storie, responsabilità e asimmetrie. Il phase-out dev’essere globale, ma soprattutto giusto.

Gli esiti della COP30, pur con le loro lacune, hanno dunque aperto uno spazio nuovo. Se Belém non ha avuto il coraggio di pronunciare ciò che tutti ormai conoscono, ha però riconosciuto che la questione non può più essere elusa. Ha dato legittimità a un’iniziativa politica che nasce fuori dallo schema consueto e che potrebbe diventare un passaggio storico: un trattato internazionale sul superamento delle fonti fossili, un accordo capace di definire obblighi, criteri e sostegni concreti.

Il vero banco di prova sarà Santa Marta. Lì la Colombia proverà a dimostrare che un altro percorso è possibile, nonostante la complessità interna e le resistenze globali. Sarà il luogo in cui la politica potrà finalmente discutere di cambiamenti reali: cosa chiudere, quando, con quali garanzie, con quali strumenti finanziari, e soprattutto con quale visione di giustizia per i lavoratori e le comunità che oggi vivono degli idrocarburi.

Non sappiamo ancora se la scelta della Colombia darà vita a un nuovo trattato o a una coalizione informale di Paesi pronti a muoversi prima degli altri. Ma una cosa è certa: dopo Belém, la transizione non può più essere raccontata come una sommatoria di impegni volontari. Con la conferenza di Santa Marta, la Colombia ha aperto una porta che difficilmente potrà richiudersi. È lì che si misurerà la distanza tra il linguaggio delle COP e la politica capace di affrontare davvero l’era post-fossile.


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