Gustavo Petro e la nuova geografia del potere digitale


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(Federica Cannas) – C’è un potere che non si vede, ma che determina quanto possiamo vedere. Un potere che decide chi può parlare nello spazio pubblico globale. Il presidente della Colombia Gustavo Petro, in un suo lungo post sui social, lo chiama con il nome che merita: appropriazione privata dell’intelligenza collettiva. È il nucleo del nuovo dominio mondiale.

Non è un eccesso retorico. È la fotografia di ciò che accade quando la sovranità non si gioca più sui confini, ma sui server. L’America Latina lo capisce meglio di altre regioni del mondo, perché il suo rapporto con l’imperialismo non è mai stato astratto. Dall’estrazione mineraria all’estrazione dei dati, cambia la superficie, non la logica.

Petro nel suo intervento parte dalla Riforma protestante per arrivare all’intelligenza artificiale. Una traiettoria insolita solo per chi osserva la politica come un insieme di compartimenti stagni. Per lui la frattura è evidente. Le chiese nate dal gesto rivoluzionario di Lutero, in Colombia, difendono oggi gli interessi dei grandi capitali e si muovono contro le riforme sociali. È l’immagine di un mondo rovesciato: chi nacque per liberare le coscienze, oggi si schiera contro gli oppressi.

Il passaggio decisivo però riguarda l’algoritmo. Petro denuncia una cosa semplice e devastante. Se i dati dei colombiani finiscono in mani straniere, se il Paese non stabilisce un regime forte di sovranità digitale, la sua stessa capacità di autodeterminarsi si dissolve. È un pezzo di geopolitica che molti continuano a considerare “tecnico”. È invece il cuore del potere contemporaneo.

La contesa sull’intelligenza artificiale, in Colombia, diventa così una battaglia strutturale. Non discutere di IA significa non discutere del lavoro, delle relazioni sociali, dell’autonomia nazionale. Petro afferma che nessun Paese, né statunitense né europeo né asiatico, può appropriarsi della mente dell’umanità. È un principio radicale, che parla direttamente al Sud globale. Il colonialismo digitale è già qui, non è un rischio futuro.

Nel pieno di questa analisi, emerge la questione della rete X. Petro registra una caduta improvvisa di centinaia di migliaia di follower. La domanda è la più politica possibile. Può un attore privato decidere quali voci restano visibili e quali vengono espulse dalla sfera pubblica mondiale? Se la risposta è sì, la democrazia digitale è già finita.

Il punto non è la quantità di follower, ma il meccanismo. X è l’infrastruttura attraverso cui passa una quota enorme del dibattito globale. Se chi la controlla può rimodellare ciò che esiste e ciò che scompare, la rete non è più uno spazio di libertà. Petro lo dice senza giri di parole. È la soglia di 1984.

Il presidente colombiano conosce bene il peso di queste dinamiche. È stato inserito nella lista OFAC, l’elenco ufficiale del governo degli Stati Uniti, che raccoglie persone, aziende, enti e governi considerati coinvolti in attività illegali o contrari “all’interesse nazionale” degli USA. È stato accusato di legami con il narcotraffico proprio mentre cercava di favorire un percorso di pace con un ex presidente legato al narcotraffico reale. È stato colpito con maggiore violenza proprio quando ha denunciato il genocidio compiuto dagli israeliani contro il popolo palestinese, quando ha osato nominare l’indicibile e schierarsi dalla parte delle vittime sotto il fuoco, non solo a Gaza ma anche in Sudan, dove altre popolazioni vengono annientate nell’indifferenza internazionale. Petro sa che nessuno spazio digitale è neutrale. Sa che le piattaforme sono diventate il terreno dove si esercita il controllo globale sulla parola e sul pensiero. Ed è lì, in quell’arena opaca dominata da attori privati e potenze ostili al dissenso, che si misura la volontà di mettere a tacere ogni voce del Sud globale che rifiuti di allinearsi al potere imperiale.

La sua denuncia non riguarda solo la Colombia. Riguarda l’ordine mondiale. Se la circolazione del pensiero dipende da poche piattaforme private, l’equilibrio geopolitico si piega alle scelte di chi possiede il codice. E il Sud globale si ritrova ancora una volta nella posizione di oggetto dell’architettura internazionale.

Per questo Petro chiede trasparenza. Non solo sul numero dei follower, ma sulla logica con cui una rete gestisce la visibilità delle voci politiche. È una richiesta che tocca tutti i Paesi non allineati al centro del potere digitale. Senza trasparenza, non c’è democrazia. Senza sovranità digitale, non c’è autonomia strategica. Senza controllo dei dati, non c’è libertà politica.

Petro colloca la Colombia e l’America Latina nel punto cruciale del XXI secolo. La battaglia non è fra sinistra e destra, né fra Stati. È fra chi ritiene che l’intelligenza umana appartenga all’umanità e chi pretende di trasformarla in una proprietà privata. In questo scontro si decide la struttura del mondo che verrà.

E l’intervento di Petro, nella sua durezza, ha un merito preciso. Riporta la politica al suo compito fondamentale: difendere lo spazio della libertà reale, là dove oggi si gioca davvero. Non nei parlamenti soltanto, ma nei circuiti che elaborano il pensiero di miliardi di persone.
È un avvertimento. È anche una chiamata al Sud globale. Chi non difenderà ora la propria sovranità digitale, non avrà più modo di difendere nulla.


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