La nuova Siria ridisegna il proprio spazio strategico: apertura condizionata verso Israele


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(Francesca Corona) – A un anno dalla fine del regime di Bashar al-Assad, la Siria si trova in una fase di ricollocazione strategica senza precedenti dalla fine della guerra civile. La nuova classe dirigente, guidata dal presidente Ahmed al Sharaa, tenta di trasformare il Paese da fulcro della competizione regionale a potenziale interlocutore credibile, sia nei meccanismi di sicurezza collettiva sia nei processi diplomatici mediorientali. È in questo contesto che si colloca l’apertura – prudente ma significativa – verso un possibile dialogo con Israele, un terreno tradizionalmente impermeabile per qualunque governo siriano.

La postura di Damasco è il risultato di un’interazione complessa fra pressioni interne, vulnerabilità del sistema statale e mutamenti del quadro internazionale. Se la Siria, uscita devastata da oltre un decennio di conflitto, è alla ricerca di legittimità e investimenti per la ricostruzione, gli Stati Uniti intravedono l’occasione per ridefinire il proprio ruolo nella regione. L’amministrazione Trump, attraverso dichiarazioni pubbliche e canali diplomatici riservati, ha manifestato interesse per un percorso negoziale che allenti le tensioni tra Siria e Israele e crei le condizioni per una riduzione dell’instabilità lungo la fascia meridionale del Levante.

La dimensione centrale del contenzioso riguarda il settore del Golan sotto controllo israeliano: un nodo irrisolto fin dal 1967 e reso ancora più critico dall’occupazione di nuovi avamposti militari sul versante siriano nell’ultimo anno. Per Damasco, qualsiasi ipotesi di accordo è subordinata al ritiro di queste forze. La richiesta, ribadita pubblicamente dal ministro degli Esteri Asaad al Shaibani durante il Forum di Doha, rappresenta la linea rossa non negoziabile attorno a cui si struttura l’intera architettura siriana della sicurezza. Israele, pur consapevole del ruolo statunitense come garante del processo, continua però a condurre raid aerei contro obiettivi siriani e milizie alleate, temendo che l’erosione del proprio margine militare possa compromettere la deterrenza regionale.

Washington, secondo indiscrezioni riportate a Doha e confermate da fonti statunitensi, guarda con crescente irritazione a queste operazioni, percepite come un fattore di destabilizzazione che rischia di compromettere un percorso diplomatico fragile ma potenzialmente trasformativo. L’avvertimento rivolto all’esecutivo israeliano – evitare attacchi che possano “auto-sabotare” gli obiettivi strategici di Tel Aviv – segnala che il tradizionale margine d’azione delle forze israeliane potrebbe subire nuove forme di contenimento politico, soprattutto se la Casa Bianca dovesse investire maggior capitale diplomatico nella normalizzazione con Damasco.

Il Forum di Doha ha svolto il ruolo di piattaforma per rendere visibile la nuova configurazione regionale. L’inviato speciale USA Tom Barrack ha articolato una dottrina americana improntata al disimpegno strutturale dagli assetti politici interni degli Stati mediorientali. È un cambio di paradigma che supera l’equazione democrazia-come-condizione e punta a una cooperazione selettiva, dettata da criteri di stabilità e da valutazioni di lungo periodo più che da ingerenze ideologiche. Tale approccio, nel caso siriano, si traduce nella disponibilità a sostenere la nuova leadership a prescindere dalla sua forma di governo, purché contribuisca alla riduzione delle tensioni e alla ricomposizione regionale.

Parallelamente, il Qatar consolida il proprio ruolo di mediatore privilegiato. Nonostante l’attacco israeliano del 9 settembre contro presunti obiettivi legati alla leadership di Hamas a Doha, il governo qatariota ha mantenuto una linea diplomatica attiva, criticando le operazioni israeliane in Siria e spingendo per un coordinamento internazionale che eviti nuove escalation. L’intervento del ministro di Stato Mohammed bin Abdulaziz al Khulaifi al Forum è stato inequivocabile: la sicurezza in Siria rappresenta una priorità strategica per la stabilità mediorientale, e Doha intende essere protagonista in ogni fase del processo, dal dialogo militare alla ricostruzione post-bellica. Il Qatar, forte della sua rete di relazioni con Washington e della capacità di dialogo con attori antagonisti fra loro, si candida così a piattaforma di mediazione multilivello.

In questo scenario, la Siria tenta una difficile manovra di riequilibrio. La ricerca di una normalizzazione con Israele non implica un allineamento politico pieno, ma piuttosto la consapevolezza che un’intesa – anche minima – sulle questioni territoriali possa liberare risorse interne, attrarre investimenti e ridurre la pressione delle potenze regionali che per anni hanno sfruttato la fragilità del Paese. La nuova dirigenza mira a restituire alla Siria margini di autonomia strategica, senza rinunciare ai propri imperativi di sovranità.

Il risultato è un quadro aperto e fluido: un negoziato ancora lontano da una fase matura, ma che per la prima volta introduce elementi concreti di dialogo tra due attori che per decenni hanno vissuto in una logica di contrapposizione permanente. Se questo processo riuscirà a consolidarsi, il Medio Oriente potrebbe assistere a una delle più significative riconfigurazioni geopolitiche degli ultimi vent’anni.


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