(Federica Cannas) – Bruxelles, 18 dicembre 2025. Il quartiere europeo viene attraversato dal rumore dei trattori e dal fumo dei fumogeni fin dalle prime ore del mattino. L’area che circonda il Parlamento europeo viene occupata da migliaia di agricoltori arrivati da diversi Paesi dell’Unione in coincidenza con il Consiglio europeo riunito nella capitale belga. Al centro della protesta c’è l’accordo commerciale tra Unione Europea e Mercosur, mentre all’interno degli edifici istituzionali i capi di Stato e di governo discutono anche del suo futuro. Nel corso della giornata la tensione cresce. Vengono accesi fuochi simbolici, bruciati pneumatici e lanciati fumogeni. In alcuni momenti si registrano lanci di oggetti e forti momenti di tensione. In alcuni punti la polizia interviene con idranti e gas lacrimogeni per contenere gli scontri. La manifestazione, inizialmente organizzata come un grande presidio agricolo, si trasforma così in un segnale politico di forte impatto, impossibile da ignorare.
La mobilitazione di Bruxelles non può essere letta come una semplice protesta di categoria. Per dimensioni, modalità e tempistica, assume un valore politico preciso. L’accordo UE-Mercosur è il risultato di anni di negoziati e, se ratificato, darebbe vita a una delle più grandi aree di libero scambio al mondo, coinvolgendo circa 780 milioni di persone. Proprio questa portata lo rende altamente controverso, perché incide direttamente su settori sensibili come l’agricoltura, l’ambiente, i diritti del lavoro e il modello di sviluppo europeo. La piazza di Bruxelles rende visibile una frattura che da tempo attraversa l’Unione, ma che raramente si era manifestata con tanta forza davanti alle istituzioni.
Le ragioni della protesta sono concrete e ben definite. Gli agricoltori europei temono che l’apertura dei mercati a prodotti provenienti da Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, in particolare carne bovina, soia e zucchero, possa generare una concorrenza strutturalmente squilibrata. I diversi standard ambientali, sanitari e sociali, uniti a costi di produzione più bassi nei Paesi del Mercosur, alimentano il rischio di una pressione insostenibile sulle aziende agricole europee, già provate dall’aumento dei costi, dalla riduzione dei margini e dalle trasformazioni della Politica Agricola Comune. Le clausole ambientali previste dall’accordo vengono giudicate insufficienti, poco vincolanti e difficilmente controllabili nel tempo.
Un elemento che la piazza di Bruxelles non mette realmente in discussione è il fatto che l’America Latina, e in particolare i Paesi del Mercosur, credano in questo accordo. Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay lo considerano uno strumento di sviluppo, di stabilità economica e di rafforzamento del proprio ruolo internazionale. Negli ultimi anni, inoltre, soprattutto in Brasile e in Argentina, il tema della sostenibilità ambientale e della tutela delle risorse naturali è entrato con forza nel dibattito pubblico e nelle agende politiche, anche sotto la pressione dell’opinione pubblica interna e dei movimenti sociali. Ridurre la posizione latinoamericana a una semplice ricerca di vantaggi competitivi a basso costo sarebbe una semplificazione che non aiuta a comprendere la complessità del dossier.
Il punto di frizione, semmai, riguarda il modo in cui queste due visioni si incontrano. L’Unione Europea chiede garanzie ambientali e sociali stringenti, ma al tempo stesso propone un accordo che, nella sua struttura, continua a scaricare gran parte dei rischi sugli anelli più deboli della filiera, sia in Europa che in America Latina. È proprio questa contraddizione che alimenta la diffidenza degli agricoltori europei e che rende fragile il consenso attorno all’intesa: non la mancanza di sensibilità ambientale da parte del Mercosur, ma l’assenza di meccanismi realmente vincolanti, equi e verificabili nel tempo.
Il peso politico della protesta cresce ulteriormente perché si inserisce in un contesto europeo già segnato da forti divisioni. Germania e Spagna continuano a sostenere la necessità di ratificare l’accordo rapidamente, sottolineandone il valore strategico per la competitività dell’Unione e per il suo ruolo geopolitico globale. La Francia, al contrario, mantiene una posizione nettamente critica, seguita da Austria, Irlanda, Polonia, Ungheria e da un’Italia sempre più cauta. Le immagini degli scontri a Bruxelles rafforzano le posizioni dei governi scettici, che trovano nella mobilitazione agricola una legittimazione politica alle richieste di rinvio o di revisione dell’intesa.
La Commissione europea continua a difendere l’accordo come un pilastro della politica commerciale dell’Unione, avvertendo che un passo indietro potrebbe indebolire la credibilità europea sul piano internazionale. Ma la protesta dimostra che procedere senza un consenso sociale minimo rischia di aggravare la distanza tra istituzioni e territori, soprattutto nelle aree rurali, dove cresce la percezione di essere sacrificate in nome di strategie economiche lontane dalla vita quotidiana.
I fuochi accesi e i momenti di scontro sono l’espressione, spesso estrema, di una parte d’Europa che non si riconosce più in decisioni percepite come tecnocratiche e calate dall’alto. La mobilitazione di Bruxelles mette in discussione non solo l’accordo UE-Mercosur, ma il modello di globalizzazione che l’Unione continua a promuovere, fondato sull’apertura dei mercati e sulla competitività, ma giudicato da molti incapace di garantire equità e sostenibilità.
Le conseguenze politiche non sono marginali. La pressione della piazza contribuisce a rafforzare le posizioni di chi chiede un rinvio della firma e una riapertura del negoziato, ipotesi che nelle stesse ore prende corpo anche a livello istituzionale. La ratifica dell’accordo potrebbe subire un rinvio, oppure essere accompagnata da clausole di salvaguardia più robuste e da impegni ambientali più stringenti. Non è escluso nemmeno uno stallo prolungato, qualora il consenso unanime richiesto dalle regole europee non venga raggiunto. In ogni caso, la protesta ha già prodotto un risultato chiaro: l’accordo UE-Mercosur non può più essere presentato come una scelta tecnica inevitabile, ma come una decisione politica che comporta costi sociali e responsabilità precise.
La piazza di Bruxelles non chiude il dossier Mercosur, ma lo riapre in modo conflittuale e trasparente. Costringe l’Unione Europea a confrontarsi con le proprie contraddizioni interne e con una domanda sempre più esplicita di giustizia sociale, tutela ambientale e protezione dei territori. Un passaggio che, qualunque sarà l’esito finale dell’accordo, segna un punto di non ritorno nel rapporto tra le istituzioni europee e una parte rilevante della società che rappresentano.



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