La Cina verrà in soccorso del Venezuela?


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di Yang Xiaotong

Mentre il Venezuela e gli Stati Uniti oscillano sull’orlo della guerra, la Cina ha condannato con forza le azioni statunitensi. Secondo Pechino, l’escalation di Washington – che comprende il sequestro di petroliere venezuelane, attacchi contro presunte imbarcazioni dedite al traffico di droga e l’imposizione di un blocco al largo della costa venezuelana – rappresenta un classico esempio di unilateralismo americano, che viola la sovranità di un altro Paese e contravviene alla Carta delle Nazioni Unite.

Durante una telefonata del 17 dicembre con il suo omologo venezuelano, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha espresso la propria opposizione al “bullismo unilaterale” degli Stati Uniti e ha manifestato sostegno al diritto del Venezuela di “difendere la propria sovranità e dignità nazionale”. Tuttavia, Pechino non è andata oltre la retorica. La Cina appare chiaramente cauta nel non cadere in una trappola geopolitica e la sua inattività dimostra i limiti della sua influenza in America Latina.

Il coinvolgimento in America Latina

Da oltre due decenni la Cina persegue un’espansione delle relazioni economiche con i Paesi dell’America Latina. Di conseguenza, oggi è il principale partner commerciale del Sud America ed è anche il secondo partner commerciale del Messico, uno dei più stretti alleati degli Stati Uniti nella regione.

Il coinvolgimento cinese in America Latina è alimentato dall’elevato grado di complementarità tra le rispettive economie. I prodotti agricoli – in particolare la soia proveniente da Brasile, Argentina e Uruguay – hanno rafforzato la sicurezza alimentare della Cina, soprattutto durante la guerra commerciale con gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, minerali come il carbonato di litio di Cile, Argentina e Bolivia sono diventati indispensabili per l’industria cinese dei veicoli elettrici (EV), in rapida crescita. Negli ultimi anni, le esportazioni cinesi di veicoli elettrici verso l’America Latina sono aumentate vertiginosamente, crescendo del 55% nel solo 2023. La regione non solo ha contribuito ad alleviare il problema della sovraccapacità cinese, ma ha anche offerto un mercato alle tecnologie cinesi delle telecomunicazioni, come il 5G di Huawei – da tempo respinto dai Paesi occidentali. Attualmente, le apparecchiature 5G di Huawei sono presenti nella maggior parte dei Paesi latinoamericani.

Gli Stati Uniti, che tradizionalmente considerano l’America Latina come il proprio “cortile di casa”, hanno reagito con naturale sospetto e ostilità alla crescente influenza cinese nella regione. A febbraio, il segretario di Stato americano Marco Rubio – noto falco anti-Cina che in passato ha definito il Partito Comunista Cinese un “regime malvagio e genocida” – ha avviato un’intensa offensiva diplomatica in tutta la regione. Dichiarando di essere in missione per “contrastare l’influenza [del PCC] nell’emisfero occidentale”, ha cercato di convincere diversi Paesi latinoamericani a ridimensionare i legami con la Cina.

Pur non essendo in grado di offrire un modello alternativo convincente di cooperazione economica e ricorrendo invece a tattiche di pressione tramite i dazi, Washington mantiene comunque un vantaggio significativo in questa battaglia per l’influenza. Ad esempio, sebbene la maggior parte dei Paesi della regione sia stata economicamente incentivata ad aderire alla politica dell’unica Cina, riconoscendo Taiwan come parte inalienabile della Cina, l’America Latina continua a rappresentare l’ultimo baluardo del sostegno diplomatico a Taiwan: sette Paesi dell’America Latina e dei Caraibi mantengono ancora relazioni diplomatiche formali con Taipei anziché con Pechino.

Questa settimana gli Stati Uniti hanno ottenuto una vittoria clamorosa quando il conservatore Nasry Asfura, sostenuto da Trump, ha vinto le elezioni presidenziali in Honduras; durante la campagna elettorale aveva promesso di interrompere le relazioni diplomatiche con la Cina e di ristabilire quelle formali con Taiwan.

Nell’ultimo anno, sotto l’amministrazione Trump, diversi Paesi latinoamericani hanno ceduto alle pressioni statunitensi per limitare i rapporti economici con la Cina. A febbraio Panama si è formalmente ritirata dall’iniziativa cinese della Belt and Road. A marzo, l’operatore del Canale di Panama con sede a Hong Kong ha annunciato la vendita della maggior parte della propria quota a un consorzio di aziende americane, una mossa successiva alle accuse di Trump secondo cui questa infrastruttura vitale sarebbe controllata dalla Cina. A dicembre, il Messico ha annunciato l’introduzione di dazi fino al 50% sui prodotti cinesi, a partire dal 1° gennaio.

In Venezuela, la pressione statunitense non è legata ai suoi stretti rapporti con la Cina, ma piuttosto alla politica interna americana: Rubio cerca di portare a compimento un’agenda politica di lunga data per compiacere gli elettorati venezuelano e cubano-americano dell’opposizione. Tuttavia, un eventuale cambio di regime a Caracas danneggerebbe certamente gli interessi cinesi. In qualità di principale acquirente del greggio venezuelano, la Cina ha un interesse diretto nel mantenimento della pace e della stabilità nel Paese. Sebbene Pechino non dipenda dal petrolio venezuelano – il Venezuela non rientra nemmeno tra i suoi primi dieci fornitori di greggio – l’intercettazione statunitense delle petroliere venezuelane mina comunque la strategia energetica cinese, volta a evitare un’eccessiva dipendenza da un singolo fornitore.

Dottrina Monroe 2.0 o una trappola?

La Cina interpreta l’escalation in Venezuela non solo in chiave economica, ma anche geopolitica. Il contesto più ampio della proiezione globale del potere statunitense è fondamentale.

Nella Strategia di Sicurezza Nazionale (NSS) recentemente pubblicata, l’amministrazione Trump ha dichiarato conclusa l’epoca degli Stati Uniti come “poliziotto del mondo”, sostenendo invece un ritorno ai principi della Dottrina Monroe, una strategia di politica estera del XIX secolo volta a impedire interferenze esterne nelle Americhe che potessero ledere gli interessi statunitensi.

Sebbene la NSS non identifichi la Cina come la principale minaccia per gli Stati Uniti, afferma comunque che il governo americano manterrà una forza militare in grado di scoraggiare, anche con mezzi militari, le ambizioni cinesi su Taiwan.

Questo documento, insieme all’escalation delle tensioni tra Stati Uniti e Venezuela, ha inviato segnali contrastanti a Pechino. Da un lato, gli Stati Uniti sembrano ridimensionare la competizione con la Cina per concentrarsi sul ristabilire la propria egemonia nell’emisfero occidentale. Dall’altro, non hanno compiuto passi significativi verso un disimpegno in Asia: ad esempio, le basi militari in Corea del Sud e in Giappone restano pienamente operative.

Pechino teme che Washington stia cercando di attirarla in un falso senso di sicurezza attraverso la propria retorica e un apparente spostamento geopolitico; per questo rimane prudente.

Dopo la pubblicazione della NSS, la Cina ha diffuso un documento programmatico sull’America Latina e i Caraibi. Probabilmente una risposta agli eventi recenti, il testo riflette il tentativo di Pechino di portare lo scontro “alle porte” degli Stati Uniti.

Tuttavia, le politiche e le strategie delineate nel documento condividono gli stessi limiti che hanno sempre caratterizzato la politica estera cinese: offrono un sostegno più simbolico che concreto. Il tentativo della Cina di mobilitare il Sud Globale sotto la bandiera dell’opposizione all’egemonia statunitense e di costruire un’unità basata sul risentimento fallisce nettamente quando si confronta con la potenza militare americana.

In questo contesto, e considerando il limitato valore economico del Venezuela per la Cina e la sua distanza geopolitica, il governo cinese non impegnerebbe risorse per difendere il Paese latinoamericano.

In caso di un’invasione statunitense, la Cina probabilmente sfrutterebbe l’evento per promuovere la propria visione di un mondo multipolare e per presentarsi come paladina del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite. Pur ritenendo positivo un eventuale impantanamento degli Stati Uniti in una guerra prolungata, è quasi certo che la Cina non verrebbe in aiuto del Venezuela. Un rovesciamento del governo venezuelano da parte degli Stati Uniti metterebbe invece in luce i limiti del potere cinese nella regione. Uno scenario del genere spingerebbe senza dubbio molti Paesi latinoamericani a riconsiderare se allinearsi con la Cina sia davvero una buona idea, quando un Stati Uniti aggressivi sono così vicini.

* Yang Xiaotong è Ricercatore presso l’Horizon Insights Centre

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