(Laura Tocco) – A quasi due anni dalla sentenza contro i golpisti, il Tribunale di Istanbul sospende la condanna di incarcerazione per 230 militari. L’inchiesta, nota come “Balyoz”, “martello”, avrebbe dovuto dare uno schiaffo definitivo alle forze armate, invece, a pochi mesi dalla sentenza, riabilita i responsabili del tentato colpo di stato contro il paese.
La decisione del Tribunale arriva in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale che ha riammesso la revisione del processo all’unanimità. Una posizione che si inserisce in una fitta rete di intrighi e che riporta alla luce la sindrome del complotto in un paese già fortemente diviso. Ma per comprendere la portata di tale decisione, è bene fare un passo indietro.
Nel gennaio del 2008, un’inchiesta della Procura della Repubblica di Istanbul porta alla luce l’esistenza di un’organizzazione clandestina costituita da militari, alti ufficiali, uomini di affari, avvocati ed esponenti della società civile ultranazionalista. Si chiama Ergenekon, un termine di grande portata simbolica che, richiamando la mitologia turca dell’Asia Centrale, si ispira a quello della patria ancestrale dei turchi nei Monti Altai. Legata agli ambienti della gladio turca, l’organizzazione tramava il colpo di stato contro il governo del Primo Ministro Erdoğan e aveva tra i suoi obiettivi dissidenti politici, attivisti e intellettuali di spicco. L’inchiesta porta in tribunale diversi nomi degli ambienti nazionalisti turchi. Tra i tanti, İlker Başbuğ, ex capo di stato maggiore dell’esercito, il giornalista Tuncay Özkan e l’avvocato Kemal Kerinçsiz, quest’ultimo noto per la sua crociata contro il giornalista armeno Hrant Dink e il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk.
A due anni dalla rivelazione di Ergenekon, nel gennaio del 2010 la magistratura rivela l’esistenza di un altro complotto volto, ancora una volta, al sovvertimento delle istituzioni turche. Questa volta si chiama Balyoz, “martello”, ed è guidato da alti ufficiali delle Forze armate. In pochi giorni vengono arrestati, tra i tanti, ammiragli in servizio e generali dell’esercito. L’operazione, pensata fin dal lontano 2003, anno della vittoria politica del partito di Erdoğan, l’AKP, avrebbe dovuto spingere il paese in una situazione di caos tale da giustificare l’intervento dell’esercito. Pianificato in tutti i suoi dettagli, il progetto prevedeva l’abbattimento di un jet turco che sarebbe poi stato attribuito alla Grecia al fine di scatenare una crisi internazionale. Il piano includeva anche una serie di attacchi contro celebri musei e moschee di Istanbul nonché l’appropriazione di capitali stranieri e di conti correnti bancari per spingere il paese verso la crisi economica.
L’inchiesta accende le tensioni tra il governo e l’esercito il quale respinge le accuse definendo la propria attività come un’esercitazione volta a prevenire situazioni di tensione. Tuttavia, l’inchiesta va avanti e si apre un’ondata di arresti contro esponenti di alto rango militare. Per il paese, è la prima operazione ad attaccare duramente la classe militare. Se si pensa all’importanza dell’esercito, detentore, fin dalla fondazione della Repubblica, del ruolo di guardiano dell’ideologia kemalista, e al suo protagonismo nei tragici colpi di stato vissuti dal paese, ben si comprende il momento storico inaugurato dalle condanne emesse in ambito Bayloz. Cengiz Çandar, opinionista di Radikal, lo definisce una “Norimberga” turca.
Tuttavia, incongruenze e ambiguità emergono a pochi mesi dall’avvio dell’inchiesta. Come già accaduto per Ergenekon, anche Bayloz lancia dubbi sulla sincerità del processo. Parte dei documenti ufficiali, che proverebbero l’esistenza dell’organizzazione, vengono presto smentiti. Presunti incontri e appuntamenti non avrebbero potuto avere luogo perché contrari alla realtà provata dei fatti. L’inchiesta prende sempre più la forma di una lotta tra governo e Forze armate. Bayloz, che a differenza di Ergenekon interessa esclusivamente i militari, permette al partito di Erdoğan di rimuovere buona parte della vecchia guardia dell’armata turca e di esprimere nomi di potenziali ufficiali per favorire l’avvento di una nuova epoca, meno ostile alla dirigenza dell’AKP.
I lavori durano 21 mesi. A settembre 2012 arriva la sentenza: dei 365 imputati, 325 vengono condannati per aver partecipato alla pianificazione di un tentato golpe contro il governo di Erdoğan nel 2003. Nel mirino della magistratura finiscono nomi di spicco, come quelli degli ex comandanti delle forze di terra, dell’aeronautica e della marina, Çetin Doğan, İbrahim Fırtına e Özden Örnek, condannati all’ergastolo, pena poi convertita in venti anni di prigione per l”incompiutezza” del colpo di stato. Più di 300 militari ricevono pene dai 6 ai 18 anni di carcere.
Una vicenda che mostra i caratteri della storica frattura che da decenni segna il paese e che vede, da una parte, i sostenitori di Erdoğan e i liberali, dall’altra la vecchia guardia kemalista, forgiata sugli insegnamenti di Mustafa Kemal Atatürk, padre della patria.
Tuttavia, i recenti sviluppi, mostrano qualcosa di ben più complicato di una semplice lotta tra kemalisti e islamici. Dal 2010 a oggi, la Turchia ha vissuto grandi cambiamenti, anche in termini di alleanze e consensi politici. Il 17 dicembre 2013, sebbene diversi eventi lo avessero preannunciato, si accende lo scontro tra il Primo Ministro Erdoğan e il suo ex-alleato Gülen, in esilio negli Usa. Fondatore di una confraternita musulmana, nonché uomo d’affari, l’imam Gülen gestisce un grande apparato di scuole, università, media, banche e società finanziarie. Un uomo che ha incassato milioni di dollari tanto da essere considerato tra gli uomini più influenti al mondo dalla rivista Foreign Policy. È a lui che Erdoğan deve parte della sua ascesa politica. Dopo aver sponsorizzato politicamente l’attuale Primo Ministro, questo impero oggi sembra minarne la stabilità. All’alba del 17 dicembre, infatti, vengono arrestati esponenti del mondo politico e imprenditoriale turco vicino a Erdoğan. Il tutto sembrerebbe essere stato orchestrato dal pensatore che, infatti, possiede grande seguito nei servizi segreti, nella magistratura e nella polizia turca.
La risposta del partito al governo è immediata: il Primo Ministro scatena una caccia alle streghe silurando numerosi membri della polizia turca. A pochi giorni dall’affaire di dicembre, uno dei principali consiglieri di Erdoğan, Yalçın Adoğan, lascia intendere che il processo che ha colpito i militari potrebbe essere parte di una catena di attacchi contro l’esercito avviati da esponenti della magistratura vicini a Gülen. È il 27 dicembre 2013 quando lo stato maggiore chiede l’apertura di un’inchiesta contro un complotto che avrebbe colpito ingiustamente numerosi ufficiali dell’esercito di alto rango. Erdoğan inizia a fare dei passi indietro sul caso Bayloz e lascia intendere di essere pronto a rivedere la vicenda giudiziaria. Il 6 marzo scorso, il generale İlker Başbuğ, antico capo di stato maggiore dell’armata turca, condannato all’ergastolo nell’ambito dell’inchiesta Ergenekon, è scarcerato. In una dichiarazione Başbuğ preannuncia gli sviluppi dell’inchiesta Balyoz e afferma che è “solamente l’inizio”.
Dopo varie controversie e ricorsi, il 19 giugno 2014 arriva la sentenza della Corte Costituzionale. Il suo presidente, Haşim Kılıç, pur ammettendo l’evidenza del tentativo di un colpo di stato, denuncia la frammentarietà delle prove e la violazione di precise procedure giudiziarie a tutela dell’imputato. Uno spirito garantista, quasi nobile e apprezzabile, se fosse stato utilizzato nei numerosi processi contro dissidenti politici in cui le procedure, al contrario, non hanno mai mostrato preoccupazione verso il rispetto delle garanzie giuridiche a tutela dell’individuo. Un eccesso di garantismo che, visto in un periodo di scontri e di arresti di massa contro civili, sembrerebbe quasi ridicolo.
Come fa notare Jean Marcou, ricercatore all’Istituto francese di studi anatolici, si tratterebbe di un “ribaltamento di alleanze e di un’improvvisa convergenza di obiettivi tra il governo e le forze armate”. In poche parole, pur di attaccare e minare la credibilità del suo vecchio alleato, Erdoğan, per pragmatismo politico, sembra preferire gli interessi dei militari allo scopo di rimettere in gioco i grandi complotti e le loro condanne.
Negli anni di idillio tra Erdoğan e Gülen, il metodo Ergenekon/Balyoz rappresentava uno strumento per consolidare il governo dell’AKP. Allo stesso tempo, l’inaugurazione di un possibile processo volto a tutelare l’individuo dagli eccessi della classe militare mostrava al mondo intero il volto umano e democratico del paese. A pochi anni di distanza, l’inchiesta giudiziarie sembra essere divenuta un’arma di lotta intestina vanificando tutti i tentativi – seppur presunti – di costruire un paese democratico.
Laura Tocco (1984). Dottoranda di ricerca in Storia e Istituzioni del Vicino Oriente all’Università di Cagliari. Il suo filone di ricerca principale riguarda la storia contemporanea della Turchia e, nello specifico, lo studio della società civile turca. Ha svolto le sue ricerche in Turchia lavorando su fonti in lingua turca. Ha pubblicato articoli per diverse riviste e volumi. La sua tesi di laurea, Censura e società civile in Turchia: il caso Hrant Dink, ha ricevuto la Menzione Speciale al Premio Internazionale di Giornalismo Maria Grazia Cutuli.