(Valeria Stera) – La Giordania, sullo sfondo medio-orientale in fiamme, si presenta come un paese stabile e pacifico. Ha rappresentato, e ancora rappresenta, una seconda casa per i palestinesi che, con la nascita e le continue espansioni dello stato di Israele, sono stati costretti ad abbandonare la loro terra e rifugiarsi nei territori circostanti.
Sin dal 1948 la Giordania ha ospitato il numero più alto di rifugiati palestinesi rispetto ai suoi vicini, in particolare Libano e Siria: secondo i dati della United Nation Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA), dalla Nakba in poi, ha accolto circa 2.000.000 di profughi, senza considerare le nuove generazioni.
La Giordania si è contraddistinta rispetto agli atri paesi ospitanti per la sua particolare politica di accoglienza, adottata sin dagli esordi. Grazie alla legge nazionale N. 6 del 1954, sotto il regno di Husayn I, il diritto alla nazionalità giordana sarebbe stato concesso a chiunque fosse risieduto in Giordania nel periodo fra il 20 dicembre 1949 e il 16 febbraio 1954 o avesse goduto della cittadinanza palestinese prima del 1948, esclusi gli ebrei. Oggi, infatti, la maggior parte della popolazione di origine palestinese che risiede nello stato arabo, possiede la nazionalità giordana.
A differenza della Giordania, Siria e Libano hanno accolto migliaia di profughi ma non hanno mai concesso loro la nazionalità, la cittadinanza, un passaporto permanente e la possibilità di intraprendere la carriera politica, diplomatica o militare. La dicitura “rifugiato palestinese” che compare su passaporti temporanei, non solo rappresenta la costante rievocazione di un passato spiacevole, ma costituisce un limite al condurre una vita alla pari di un cittadino normale.
In Giordania, l’affluenza di rifugiati è stata tale da aver dato vita ad un paese in cui attualmente la maggioranza della popolazione è di origine palestinese e che si caratterizza per una forte divisione interna che vede da un lato i transgiordani e dall’altro i giordani di origine palestinese.
Una politica conservatrice, da sempre portata avanti dagli Hascimiti, potrebbe essere in parte giustificata dalla frammentazione interna al paese e dal timore che gruppi estremisti giordani, correlati a quelli operanti a Gaza e in Cisgiordania, possano risvegliare il sentimento anti-sionista e distruggere il precario equilibrio con fatica costruito, sia a livello interno che nell’area circostante.
Gli episodi di violenza verificatisi nel paese sono stati sporadici. In particolare si ricorda la guerra dei sei giorni del 1967 in cui Israele attaccò via terra Giordania, Egitto e Siria e al quale, il Re Husayn I rispose ordinando al suo esercito di attaccare le postazioni israeliane, dopo essersi rifugiato al Cairo. La questione dei rifugiati palestinesi assunse dimensioni preoccupanti con la fine del conflitto e l’espansione dello Stato di Israele. Fra le conseguenze, ci fu un’immigrazione di massa proprio verso la Giordania e l’intensificarsi della guerriglia palestinese contro Israele nella valle del Giordano. I timori di Re Husayn I di fronte all’incertezza degli avvenimenti futuri sfociarono nel settembre nero del 1970, durante il quale il sovrano rispose in maniera repressiva attaccando le roccaforti palestinesi presenti nel suo paese e costringendo organizzazioni armate e rifugiati palestinesi ad abbandonare il regno.
La forte spaccatura interna, il perpetrarsi del conflitto israelo-palestinese e le difficoltà incontrate nel garantire benessere e stabilità del Regno Hascimita hanno da sempre condizionato le scelte in politica estera. Le relazioni con l’occidente si sono mantenute stabili grazie a protezione e benefici che questo ha saputo dare alla Giordania. Quest’ultima ha assecondato la politica occidentale in Medio Oriente, perseguendo obiettivi comuni e assumendo posizioni politiche simili rispetto ai recenti eventi e dinamiche che hanno caratterizzato questa regione, senza esporsi eccessivamente e ricevendo in compenso continui aiuti economici da parte degli Stati Uniti: ben 13 miliardi di dollari hanno permesso in pochi decenni di vita, la costruzione di infrastrutture e dell’attuale sistema politico. Conseguentemente anche i rapporti con Israele si sono intensificati sia per assecondare i desideri statunitensi, sia per i benefici economici derivanti dalla sua vicinanza. Infatti, la scarsa presenza di materie prime, soprattutto acqua e idrocarburi, ha reso la Giordania dipendente dai Paesi vicini, soprattutto da Israele e Arabia Saudita.
Dagli anni ’70 in poi, la Giordania si è mostrata nello scacchiere internazionale come una monarchia stabile a legittimità islamica. Negli ultimi anni, sotto il regno di Abdallah II, primogenito di Re Husayn I e al governo dal 1999, in concomitanza con il fermento arabo del 2011 e i seguenti risvolti negativi a livello regionale, ripetute proteste e sporadici casi di violenza hanno animato il paese, provocate dal malcontento e dalla povertà diffusa. Il governo giordano è dovuto scendere a compromessi e fare piccole concessioni per rispondere alle richieste interne pur mantenendo un atteggiamento rigido e repressivo al fine di stroncare in partenza un’eventuale aggravamento delle condizioni interne, similmente a quanto accadde nel 1989, sotto il regno di Husayn, in occasione della crisi socio-economica dovuta all’aumento del prezzo del pane.
Per il momento, le proteste non hanno avuto risvolti preoccupanti, forse grazie alla divisione interna che non permetterebbe l’unità necessaria a creare una rivolta efficace o forse perché i giordani palestinesi hanno imparato dal passato a non esporsi eccessivamente per non perdere i diritti miracolosamente acquisiti. Il settembre nero mostrò un governo capace di rivisitare senza esitazioni la sua politica di accoglienza verso i palestinesi, limitando il loro diritto a manifestare il sentimento anti-sionista ed esternare l’insofferenza relativa alle questioni di politica interna.
Oggi la Giordania si presenta ancora una volta come un paese accogliente con i numerosi sfollati provenienti dal confine del nord, sin dall’inizio del conflitto siriano, permettendo la nascita di vasti campi profughi nel suo paese e accogliendo circa mezzo milione di rifugiati. Un’altra sfida si è prospettata per gli Hascimiti, che hanno saputo attirare fondi internazionali provenienti dalla cooperazione e fare pressione sugli operatori internazionali affinché dessero priorità all’assunzione di figure locali nei campi profughi e nelle comunità di accoglienza.
Nella politica di accoglienza della Giordania ci sono però anche delle ombre. In base a un rapporto redatto e pubblicato da Human Rights Watch, pare che il governo giordano abbia ostacolato l’ingresso di palestinesi provenienti dalla Siria sin dal 2012. Secondo le indagini svolte, i rifugiati palestinesi stabilitisi da tempo in Siria hanno visto negato il diritto a ottenere la cittadinanza giordana come avvenne in passato; altri sono stati vittime di sequestro di documenti ritenuti contraffatti, deportazioni, divieto di ingresso in Giordania e spesso costretti a sostare in zona di guerra. Il respingimento dei palestinesi al confine con la Siria non solo può essere interpretato come un segnale di paura per una condizione interna che, se pur salda all’apparenza, sicuramente nasconde una precaria stabilità, ma è anche una violazione dell’obbligo internazionale di soccorrere e proteggere rifugiati e richiedenti asilo nel proprio paese.
Questo fatto avvalora ancor più la convinzione secondo la quale il timore che un nuovo settembre nero posso verificarsi in Giordania è forte non soltanto per i giordano-palestinesi ma anche per il governo.
La Giordania non può infatti permettersi un passo falso in questo delicato periodo storico. I giordani di origine palestinese vivono ancora nella speranza di rivedere o vedere la propria terra d’origine libera dal colonizzatore israeliano e di poter camminare ancora una volta o, per alcuni per la prima volta, sulla terra dei propri padri. I transgiordani temono che i palestinesi in Giordania possano impossessarsi della loro terra, su esempio degli Israeliani.
Solo il futuro potrà dire se l’equilibrio finora preservato è stato, e continuerà a essere, il risultato di scelte politiche strategiche o se spiacevoli e inattesi cambiamenti colpiranno ben presto anche la Giordania di Abdallah.
Valeria Stera (1984). Laureata presso la facoltà di Scienze Politiche di Cagliari in Governance e Sistema Globale, Studi Politico-Internazionali dell’Africa e dell’Asia con una tesi sullo sfruttamento del lavoro minorile in India, realizzata grazie ad un’esperienza di ricerca sul campo. Ha svolto alcuni stage in Giordania e ha lavorato per un breve periodo per una ONG norvegese, Norwegian Refugee Council (NRC), presso il campo dei profughi siriani di AL Za’atari.