(Annamaria Brancato – Il Cairo) – A pochi giorni dalla commemorazione del 67 anniversario della Nakba (catastrofe) palestinese è doveroso soffermarsi sul valore di questa giornata e sull’importanza che essa rappresenta per i palestinesi, in particolare quelli della diaspora.
La Nakba è il momento cruciale dell’espulsione del popolo palestinese dalla propria terra e dalle proprie case, che va a coincidere per l’appunto con la nascita ufficiale dello Stato d’Israele nel 1948.
Per i palestinesi non ha rappresentato solo la perdita dei beni materiali, quanto un’espropriazione della propria vita e della propria identità, costretti a vivere da quel momento in bilico e in continuo esilio da un paese all’altro, affrontando pesanti discriminazioni e subendo gli umori politici dei vari stati ospitanti, fossero essi stati arabi o europei.
Se da una parte se ne commemora la ricorrenza, dall’altra si può sicuramente affermare che la Nakba e le sue conseguenze si sono protratte fino ai giorni nostri, ripercuotendosi perfino sui palestinesi rifugiati ormai di quarta o quinta generazione
Le motivazioni vanno sicuramente ricercate nella politica ambigua non solo di Israele (che persegue il suo obiettivo di diventare uno stato senza minoranze) e dei suoi alleati; quanto anche dei paesi arabi e dei politici palestinesi stessi che, barattando potere e alleanze, hanno totalmente dimenticato l’esistenza di un popolo e del suo diritto fondamentale, ancora oggi negato, che è quello di poter far ritorno in Palestina.
Un ruolo fondamentale nello stabilire le dinamiche delle vicende palestinesi è stato sicuramente giocato dall’Egitto, la cui politica interna degli ultimi quattro anni e le vicissitudini seguite alla caduta di Mubarak nel 2011 e a quella di Morsi nel 2013 hanno avuto un’influenza decisiva sulle relazioni internazionali del Paese e sulla “stabilità” dell’intera regione.
Con Mubarak, il processo di pace con Israele iniziato nel ‘78 da Sadat ha proseguito fino a consolidarsi con l’attuale presidente Abd al-Fattah al-Sisi. Quest ultimo spesso si erge a mediatore tra le pretese israeliane e la resistenza palestinese: basti pensare ai suoi tentativi, poi falliti, di far cessare gli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza durante la scorsa estate.
Non solo, ma al-Sisi è diventato un prezioso alleato dell’occidente contro la minaccia islamista, rappresentata dall’ISIS e da gruppi affini presenti nel Sinai, ai quali cerca di ricondurre l’attività politica di Hamas nella Striscia di Gaza.
Ma che relazione esiste tra il cosiddetto processo di pace tutt’oggi in corso e la Nakba?
Per molti, e non a torto, è esattamente il proseguimento del processo di pace, inteso nei termini cui fino ad ora siamo stati abituati a definirlo, ad essere una delle cause principali del perpetuarsi della catastrofe palestinese.
Quello che veniva stabilito negli accordi del’78 era sostanzialmente il principio espresso dalla risoluzione ONU 242 “terra in cambio di pace” o “ pace in cambio di terra”. Accordi che da parte palestinese non vennero accettati proprio perché non prendevano in considerazione l’autodeterminazione del popolo palestinese e lasciavano volutamente fuori da ogni decisione lo status di Gerusalemme.
Uscì rafforzato da questi accordi solo il legame economico e strategico militare tra Israele, Egitto e l’America, che ha aumentato da quel momento il suo sostegno ai due paesi.
Ciò che invece nacque dagli Accordi di Oslo del ’93 un ulteriore aggravamento della già complicata situazione palestinese la creazione di un sistema amministrativo asservito al volere e al potere dell’occupante, che vede ancora oggi nell’Autorità Palestinese l’unico organo rappresentativo del popolo palestinese; un sistema di polizia che rinnega e condanna la resistenza palestinese e una classe dirigente che perfino nei discorsi ufficiali omette la presenza di una diaspora di ormai più di 5 milioni di rifugiati, che ancora vivono nei campi profughi in condizioni disumane.
Oslo ha consegnato definitivamente alle autorità militari israeliane il controllo della Striscia di Gaza, che in un modo o nell’altro persiste ancora oggi nonostante il cosiddetto disimpegno unilaterale israeliano del 2005.
Per l’Egitto oggi la questione palestinese è una mera questione di sicurezza. La classificazione di Hamas come gruppo terroristico e la persistente chiusura del valico di Rafah, frontiera internazionale con la Striscia di Gaza e unica possibilità di vita per i gazawi, accrescono la tensione tra i due governi facendone pagare le conseguenze alla popolazione palestinese che da novembre dello scorso anno ha visto la creazione di una buffer zone tra l’Egitto e Gaza con lo sgombero e la distruzione di centinaia di case.
Più recente è invece la notizia che le autorità egiziane abbiano tagliato le forniture di energia elettrica nella parte meridionale della Striscia a causa delle insolvenze della compagnia palestinese che gestisce l’energia.
I palestinesi in Egitto oggi
Attualmente i palestinesi in Egitto sono circa 70.000. Le stime, però, non sono precise in quanto, a differenza di altri paesi quali Libano o Giordania, in Egitto non esiste una sede operativa dell’UNRWA (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dell’assistenza ai rifugiati palestinesi) cosicché la tutela dei rifugiati spetta all’UNHCR. Non tutti i palestinesi presenti in Egitto, però sono stati registrati all’UNHCR e, in particolare negli ultimi anni la loro presenza è stata associata a quella dei siriani in fuga dai disordini del loro paese.
In Egitto non sono presenti campi profughi palestinesi come nel resto dei paesi arabi e i palestinesi non formano una comunità omogenea, ma vivono integrati nella società egiziana in diverse aree del Cairo, a Rafah,ad Alessandria e in alcuni governatorati del nord come Sharqiye.
Fino agli anni ’70 erano trattati alla pari delle altre nazionalità e, soprattutto, avevano modo di occupare posti di un certo rilievo grazie ad alti livelli di educazione e alla loro preparazione professionale, acquisita in gran parte durante la permanenza nei paesi del Golfo tra gli anni ’60 e ’70.
La delusione palestinese per gli Accordi di Camp David e l’assassinio del Ministro della Cultura egiziano Yusuf al-Sibai dovuto al supporto che questi diede a Sadat durante il processo di pace, contribuirono a creare in Egitto un’immagine negativa del palestinese “ingrato” e unico responsabile della vendita della propria terra.
A livello internazionale, la situazione non giovava alla causa palestinese: erano infatti gli anni del Settembre Nero in Giordania e dell’inizio dello scoppio della guerra civile libanese. In tutti questi casi, la propaganda razzista dei governi contro lo straniero palestinese è stata molto forte e ha contribuito a dare al rifugiato quella connotazione di illegalità.
A seguito di questa situazione, la stretta egiziana sui palestinesi è diventata più pressante ed è andata a colpire in particolare il diritto a un’educazione gratuita e a rilascio dei documenti di soggiorno.
Fonti più recenti dell’UNHCR hanno messo in luce le difficoltà che oggigiorno, a seguito dei mutamenti politici interni, il palestinese si trova ad affrontare in Egitto a cominciare dalla restrizione delle libertà di movimento. Dopo gli eventi del 2011/2012, infatti, il Ministro degli Esteri egiziano aveva chiesto alle autorità dell’UNHCR di non registrare più come rifugiati i palestinesi “doppiamente esiliati” provenienti dalla Siria e, secondo quanto riportato del sito dell’UNHCR, i palestinesi non sono considerati tra i cosiddetti people of concern
Secondo un articolo apparso sul sito badil.org lo scorso autunno, i palestinesi siriani si sono visti diverse volte umiliare dalle autorità egiziane, le quali hanno posto loro di fronte alla scelta di tornare in Siria o andare a Gaza.
Nonostante tutto e senza far troppo rumore, anche i palestinesi in Egitto si apprestano a ricordare la Nakba che oggi significa proprio questo: il dover continuare a confrontarsi con uno stato di apolidia che non permette di avere certezze sui propri diritti e sulla propria vita e il rapportarsi con una discriminazione crescente dovuta a politiche internazionali, in realtà lontane dalle voci e dalle sofferenze del popolo.
La Nakba oggi è la giornata della memoria del popolo palestinese, che lotta contro il suo olocausto e che resiste alle pressioni di una comunità internazionale che continua a far finta di non vedere.