(Paola Di Lullo) – Giovedì 28 maggio, l’agenzia di stampa israeliana Yediot Aharonot, ha riportato che Ayelet Shaked avrebbe presentato domenica 31 maggio una proposta al comitato ministeriale per gli affari legislativi per modificare le leggi vigenti. La proposta della Shaked prevede l’eliminazione della necessità di dimostrare che i Palestinesi che lanciano pietre contro i soldati israeliani durante le proteste hanno intenzione di causare danni o meno e la possibilità che vengano condannati a scontare fino a 20 anni di carcere, anche se minorenni. E domenica, il consiglio dei ministri israeliano, ha approvato il disegno di legge di Ayelet Shaked. Alla luce di quanto sopra, non si può non ricordare Mustafa Tamimi, assassinato a 28 anni dall’esercito israeliano a Nabi Saleh il 16/12/2012. Mustafa tirava pietre…contro una jeep militare, quando un soldato sparò un lacrimogeno ad altezza uomo, colpendo Mustafa alla testa. Queste le parole di Jonathan Pollack, attivista israeliano, tra i fondatori del gruppo Anarchists against the Wall, che manifesta insieme ai palestinesi e agli internazionali nei villaggi della Cisgiordania minacciati dal muro e dall’occupazione. Aveva la stessa età di Mustafa Tamimi.
L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano israeliano Ha’aretz “Il portavoce dell’esercito aveva ragione: Mustafa è morto perché tirava pietre. È morto perché ha osato dire la verità, con le sue mani, in un posto dove la verità è vietata. Mustafa Tamimi tirava pietre. In modo impenitente, e a volte senza paura. Non solo quel giorno, ma quasi ogni venerdì. Nascondeva anche il viso. Non per paura della prigione, che aveva già imparato a conoscere da vicino. Ma per preservare la sua libertà, per poter continuare a tirare pietre e resistere al furto della sua terra. Ha continuato a farlo fino al momento della sua morte. Ha scritto il quotidiano britannico The Daily Telegraph, che in risposta all’articolo sulla morte di Tamimi, il portavoce del Commando israeliano si è chiesto, attraverso il suo account twitter: “Cosa pensava che succedesse Mustafa mentre correva verso una jeep tirando pietre?”.
Così, semplicemente e ironicamente, il portavoce ha spiegato perché Tamimi era responsabile della sua stessa morte. Mustafa Tamimi, del villaggio di Nabi Saleh – figlio di Ikhlas e Abd al-Razak, fratello di Saddam e Ziad, dei gemelli Oudai e Louai e della sorella Ola – è caduto vittima di un colpo sparato alla testa a distanza ravvicinata venerdì. Poche ore dopo, alle 9.21 di sabato mattina, è morto per le ferite riportate. Da una jeep militare blindata, un lacrimogeno gli è stato sparato addosso a distanza di soli pochi metri. Non è stato per paura che la persona che ha sparato lo ha colpito. Ha infilato la canna del fucile nella porta del veicolo blindato e ha sparato con un chiaro intento. Il tiratore è un soldato. La sua identità rimane sconosciuta e probabilmente lo sarà sempre. Forse questa è la cosa migliore. Identificarlo e punirlo servirebbe solo a nascondere i crimini di un intero sistema.
Come se i civili israeliani indifferenti, il sergente, il comandante della compagnia, il comandante del battaglione, il comandante di brigata, il comandante di divisione, il ministro della Difesa e il primo ministro non avessero colpe per il colpo sparato. Il portavoce dell’esercito aveva ragione. Mustafa è morto perché tirava pietre. È morto perché osava dire la verità, in un posto in cui la verità è vietata. Ogni discussione in merito ai colpi sparati, alla loro legalità e all’ordine di aprire il fuoco, lascia intendere che il proprietario della terra non ha il diritto di espellere l’invasore. Al contrario, l’invasore è autorizzato a sparare contro il padrone della terra.
Il corpo di Mustafa giace senza vita perché ha avuto il coraggio di tirare pietre nel 24° anniversario della prima Intifada, che ha generato i “bambini delle pietre”. Suo fratello Oudai è stato imprigionato nel carcere militare di Ofer, e non gli è stato permesso di prendere parte al funerale, perché anche lui ha tirato pietre. E sua sorella non ha potuto essergli accanto nei suoi ultimi momenti di vita, anche se non era sospettata di aver lanciato pietre. Solo perché è palestinese. Mustafa era un uomo coraggioso, ucciso perché ha lanciato pietre e si è rifiutato di essere spaventato da un soldato armato, seduto al sicuro dentro una jeep militare e coperto da un’armatura.
Il giorno della morte di Mustafa, il gelido silenzio della valle era solo leggermente meno agghiacciante del suono lacerante dei lamenti di sua madre, che si sentivano di tanto in tanto. Centinaia di lanciatori di pietre lo hanno seguito al funerale. È stato calato nella tomba e le pietre hanno coperto il suo corpo. I soldati stavano fermi all’ingresso del villaggio. Persino l’angoscia e la solitudine della separazione sono stati intollerabili per l’esercito, che ha posizionato i suoi uomini e ha ordinato loro di sparare lacrimogeni sui partecipanti al funerale che, in lutto, discendevano la valle seguendo il feretro. Mentre il soldato che ha sparato a Mustafa è in libertà, sei manifestanti sono dietro le sbarre. Mustafa, camminiamo dietro il corpo con il capo chino e gli occhi pieni di lacrime. Ti amiamo, perché sei morto per aver tirato pietre, e noi no.”