(Paola Di Lullo) – È il marzo del 2013. Emad Burnat fissa immobile una fila di telecamere appoggiate su un tavolo di lamiera, nella sua abitazione. Due sono state sfondate, altre due crivellate di colpi, e l’ultima resa inservibile da un bagno nei gas nocivi delle granate israeliane. Emad aveva deciso di usare queste telecamere per filmare la nascita e la crescita dei suoi figli, ma durante gli ultimi sei anni le ha trasformate in uno strumento per documentare il moltiplicarsi dei coloni israeliani e l’occupazione definitiva del suo paese della Cisgiordania. Il documentario di Emad, dal titolo “5 Broken Cameras”, è frutto dell’assemblaggio del materiale ottenuto dopo oltre 500 ore di girato.
Ha da poco partecipato a Los Angeles, alla serata finale dei premi Oscar, nominato nella categoria miglior documentario, non prima di essere stato fermato ed interrogato con tutta la sua famiglia, rischiando l’espulsione, all’aeroporto di Los Angeles, nonostante avesse mostrato il suo invito per partecipare alla serata. Ma Emad è Palestinese.
A Bil’in, dove vive, Emad era conosciuto come “l’uomo con la cinepresa.” E, infatti,5 Broken Cameras si sarebbe potuto fare solo se la telecamera avesse continuato a girare senza sosta. A differenza della maggior parte del materiale sulla questione israelo-palestinese, 5 Broken Cameras evita la pesante ricostruzione della storia politica e filtra il conflitto attraverso una prospettiva unica—un resoconto personale della crisi degli insediamenti israeliani tramite filmati girati in maniera amatoriale.
Emad presenta i suoi figli a seconda del periodo nel quale ciascuno di loro è nato. Il primo è nato durante il periodo di relativa pace garantito dagli Accordi di Oslo. Il secondo durante le Seconda Intifada. Jibril, l’ultimo, è nato mentre si cominciava a costruire la barriera di separazione israeliana. La barriera segue la Linea Verde stabilita dalla comunità internazionale, ma penetra profondamente all’interno del territorio cisgiordano inglobando al suo interno il 50% delle terre coltivabili di Bil’in. Per Emad è un’usurpazione della propria casa. Il paese ha reagito con dimostrazioni non violente, portando sempre più in là la sua provocazione all’esercito israeliano.
Guy Davidi, un documentarista israeliano giunto sul posto con la stampa, ha notato che Emad era l’unico cittadino di Bil’in ad avere una telecamera, e che ce l’aveva sempre in funzione al momento giusto. Guy ha chiesto di poter visionare parte del girato. “Stavo guardando l’immagine di un vecchio che cercava di salire su una jeep dell’esercito per impedirgli di portare via qualcuno,” ha detto Guy. “E ho chiesto a Emad, ‘Chi è quest’uomo?’ E lui, ‘È mio padre’.” Guy parla della scena in cui il padre di Emad, già ben oltre i 65 anni, si è arrampicato su un blindato israeliano per impedirgli di portare via il figlio. “In quel momento ho capito che ci sono immagini davvero importanti nei cinque, sei anni di video che ha girato.” Il film è ricco di scene che torturano lo sguardo dello spettatore come questa: il figlio di tre anni che fatica a respirare a causa dei gas lacrimogeni che penetrano dalle portiere della macchina mentre la famiglia fugge da una dimostrazione degenerata; gli uliveti aggrediti dalle fiamme; un raid notturno in cui i soldati arrestano i bambini del villaggio.
La durezza di questi episodi supera la necessità di un’indagine politica sobria e accurata. Di fronte all’immagine di tre donne che cercano di impedire l’ingresso a un soldato urlando “Non ci sono bambini qui!”, le complessità della situazione politica sono completamente oscurate dalle motivazioni basilari che tengono insieme una famiglia. 5 Broken Cameras, che sia un bene o un male, si occupa di questa sfera, mettendo a fuoco la situazione di un piccolo villaggio che viene messo assaltato da un grande esercito. I palestinesi mettono in scena l’intera gamma delle loro fantasiose azioni non violente, alle quali gli israeliani rispondono inviando un’orda di militari. Coi fratelli in arresto o uccisi (a uno di loro viene sparato un colpo in una gamba da un militare israeliano, all’improvviso), gli amici resi ciechi dal gas lacrimogeno o uccisi, le richieste della moglie di abbandonare le riprese e lo stesso Emad messo ai domiciliari, c’è da meravigliarsi che lui resti attaccato alla sua telecamera. Ma è il suo unico modo di rivendicare la terra, dice, e non è disposto a rinunciarvi.
In un’intervista rilasciata il 05/06/2015, Emad Burnat afferma “Io dico che gli attivisti israeliani dovrebbero lavorare all’interno della società israeliana e non venire solo nel nostro paese.”
“Non vi preoccupate se non avete i soldi per i CD”, dice Emad Burnat, agitando una pila di copie firmate del “5 Broken Cameras”. “È più importante mostrare il film ai vostri amici così che possano vedere che cosa sta accadendo in Palestina.” Parlando dopo una proiezione, organizzata dall’ International State Crime Initiative, Burnat insiste affinché il pubblico veda il documentario, affermando il suo obiettivo principale: l’esposizione alla causa.
“È [il film] diventato il simbolo della lotta in Cisgiordania e in Palestina e dopo “5 Broken Cameras”, ci sono milioni di persone in tutto il mondo che conoscono il paese e la questione palestinese,”. “Penso che sia molto importante educare le persone, mostrando loro film sulla vita reale lì. E la verità.”
Con in dosso un abito grigio scuro, abbronzato, i capelli brizzolati pettinati all’indietro, Burnat sembra più una star del cinema che un regista. Il suo film, “5 Broken Cameras”, è un resoconto di prima mano della resistenza popolare contro l’occupazione israeliana nel villaggio di Bil’in in Cisgiordania. Il documentario è suddiviso in cinque capitoli, segnati dalla distruzione di cinque telecamere del Burnat. Ha descritto la sua macchina fotografica come un “amico” e la sua “arma”, particolarmente utile nei tribunali israeliani.
Quando Burnat acquistò la sua prima macchina fotografica lo fece con l’intenzione di riprendere suo figlio neonato Gibreel. Ma, mano a mano che la tensione cresceva fuori dalle mura domestiche e le proteste montavano nel paese, il filmato ha ripreso tutto. Gibreel è un personaggio centrale e lo spettatore impara molto sulla lotta attraverso i suoi occhi.
Completato il film, Burnat dice che i suoi quattro figli lo hanno guardato molte volte. Mentre era in fase di realizzazione, ha avuto un forte impatto su di lui e la sua famiglia: “Quando si va fuori a filmare e si deve concentrarsi sulla famiglia e sulla fotocamera e sulla lotta e su quello che sta succedendo nel villaggio e ci sono molte pressioni su di te, non è affatto facile, la vita così è molto difficile. “
“È stato molto difficile per i miei figli, perché a volte quando andavo a fare le riprese l’esercito israeliano rompeva la mia macchina fotografica o mi sparava. Quando mi arrestano vado in prigione e sono lontano dalla famiglia. Quindi per loro è più difficile vivere senza un padre o di qualcuno che si prenda cura di loro. Ma quando si ha uno scopo, quando si sta facendo qualcosa per un motivo si deve pagare il prezzo, sempre. Tu sai che c’è un prezzo e molte sono stato sul punto diessere ucciso dai soldati. “
Burnat e la sua famiglia sono da sempre olivicoltori. Una scena, all’inizio del documentario, ritrae un geometra inviato dalle autorità israeliane per segnare terreno dove sorgerà il muro. Taglierà gli uliveti dei Burnat e prenderà più del 55% del suo territorio. Eppure, nonostante i ripetuti tentativi di logorarlo, Burnat dice che non perderà mai il suo legame con la sua casa.
“Saremo sempre legati alla nostra terra ed ai nostri alberi perché l’olivo non è solo un albero per noi, è il simbolo del nostro Paese, la Palestina. Non ci serve solo per alimentarci. Noi rispettiamo e amiamo gli ulivi perché sentiamo che il nostro rapporto con la nostra terra sono gli ulivi “.
Fu proprio quando questa terra fu portato via e gli ulivi distrutti che gli abitanti dei villaggi cominciarono a combattere attraverso la resistenza popolare per la quale ormai Bil’in è noto. I media sono attratti al villaggio grazie alle idee creative che i manifestanti hanno impiegato per generare interesse. I musicisti hanno suonato le loro marce e gli attivisti si sono incatenati al muro. Burnat ed i suoi amici si muovevano in un rimorchio, con “Bil’in” scritto su di un fianco.
Eppure, non tutti coloro che visitano Bil’in lo fanno con integrità. Molti politici, dice Burnat, usano la lotta per i loro fini: “Vengono a parlare alle telecamere e poi vanno via.”
Guy Davidi, co-regista del film, è un attivista israeliano. Dopo l’incontro durante una delle pacifiche proteste di Bi’lin, durante la quale si conobbero, Burnat lo chiamò, a progetto quasi ultimato, chiedendogli aiuto per il montaggio. Lavorarono insieme nella casa di Bil’in di Burnat e, dopo il montaggio preliminare, un editore francese aggiunse gli ultimi ritocchi.
“Non ho scelto lui perché è israeliano ed io volevo collaborare con un israeliano, non è per questo il motivo che l’ho chiamato ed ho lavorato con lui. È perché lo conosco, è un attivista israeliano e a volte è venuto al villaggio per partecipare e supportarci. Loro credono che noi abbiamo il diritto di vivere in libertà. Così l’ho chiamato come si chiama un amico, non perché volessi una collaborazione israelo-palestinese. “
“Gli attivisti israeliani non crescono in numero, una prospettiva preoccupante per un paese che sta già andando verso l’estrema destra. Io dico che gli attivisti israeliani dovrebbero lavorare all’interno della società israeliana e non soltanto venire nel nostro paese”.
Burnat vive ancora nella stessa casa in cui ha curato “5 Broken Cameras”. La pellicola, primo documentario palestinese ad essere nominato per un Oscar, potrebbe essere famosa in tutto il mondo e Emad essere ricco, ma non è così. Gli incassi sono minimi. “Se questo film fosse una fiction o non fosse legato ad un conflitto o alla situazione politica o non ambientato in Palestina, forse avrebbe avuto più successo economico”.
Fin da quando il film è uscito, il muro è stato spostato dal villaggio di Burnat, più vicino agli insediamenti, liberando così alcuni dei terreni : una mini-vittoria per gli abitanti di Bil’in. “Oltre a ciò, il film non ha portato a cambiamenti concreti sul campo”, dice Burnat, “perché è stato eclissato da altre storie di tutto il mondo. “Ora si parla tanto di ISIS”.
Burnat pensa che più persone dovrebbero partecipare BDS, con una particolare attenzione per le più grandi aziende in Israele. “Non è la soluzione per liberare la Palestina, ma è una delle pressioni che possono essere utilizzate contro lo stato di Israele.” Quindi, qual è la soluzione?
“Noi non conosciamo la soluzione. Molte persone ci pongono questa domanda. Abbiamo lottato negli ultimi 60, 65 anni per ottenere l’indipendenza e la libertà, ma da quando l’Autorità Palestinese è arrivata in Palestina, loro hanno negoziato con gli israeliani e ogni anno dicono che il prossimo anno ci sarà uno Stato Palestinese ed una soluzione. Ma dopo 20 anni la situazione continua a peggiorare ogni giorno, ogni settimana, ogni anno. “
“Ciò di cui la Palestina ha bisogno è la fine fine dell’occupazione. Per fare questo abbiamo bisogno di aiuto da parte della comunità internazionale. Né le Nazioni Unite, né la Corte Penale Internazionale stanno facendo nulla sebbene abbiano il potere per giungere ad una soluzione. I Palestinesi non hanno nulla. Sono l’unico popolo al mondo che vive ancora sotto occupazione”.
Fonti : Vice e Middle East Monitor