(Michele Monni) – «I nervi sono a fior di pelle. Appena vediamo più di due auto avvicinarsi al villaggio, i bambini si spaventano e scappano nei campi. Pensano che sia l’esercito che viene a demolire le loro case». È il racconto di Nasser Nawajaa, portavoce di Susya, un villaggio beduino situato fra le colline a sud di Hebron (Cisgiordania). Da una settimana gli abitanti vivono sotto la minaccia costante di una demolizione da parte delle autorità israeliane.
La saga di Susya – 350 abitanti dediti alla pastorizia, all’apicoltura e alcuni di loro anche all’agricoltura – si trascina nei tribunali di Israele da un decennio. Adesso la sua sorte è balzata all’attenzione internazionale. «Facciamo un forte appello alle autorità affinchè si astengano da demolizioni in quel villaggio«, ha detto a Washington un portavoce del Dipartimento di Stato. »Sarebbero dannose, provocatorie». Anche l’Unione europea ha fatto appello da Bruxelles affinchè Israele fermi a Susya «i piani di un trasferimento forzato della popolazione e le demolizioni».
Sdegno è stato ovviamente espresso dalle fazioni politiche palestinesi. Il villaggio si trova nelle ‘Aree C’ (62% della Cisgiordania) sotto completo controllo militare israeliano. La sua demolizione è stata confermata nel maggio scorso dalla Corte Suprema di Gerusalemme, che ha respinto un ricorso degli abitanti. Questi sostengono di essere in possesso degli atti di proprietà delle terre, risalenti al periodo dell’impero ottomano.
Di recente Haaretz ha anche scritto che il villaggio – composto oggi da tende e da prefabbricati in lamiera – si troverebbe, almeno in parte, su terre private palestinesi. Ma quelle ed altre carte sono apparse vaghe, imprecise. Non hanno in definitiva persuaso i giudici, che hanno comunque rinviato le demolizioni a «dopo il Ramadan». Ogni giorno, adesso, potrebbe essere quello decisivo.
Alla Knesset (parlamento) il viceministro della Difesa Ely Ben Dahan ha detto che «il villaggio di Susya non esiste. È solo un espediente dei gruppi di sinistra». «Io a Susya ci sono nato nel 1946. Ho due anni in più dello stato di Israele! Che diritto hanno di distruggere le nostre case?», chiede Abu Jehad sorseggiando un caffè circondato da una decina di nipotini. «Possono distruggere le nostre abitazioni«, prosegue, »ma non la nostra volontà di rimanere». Non è la prima volta, sostiene, che il villaggio viene distrutto: così fu nel 1986, «per fare spazio ad un insediamento israeliano».
Poi nel 2002, »dopo l’uccisione di un colono« in una zona vicina. «Solo un’intensa pressione internazionale può bloccare le demolizioni», dichiara Nawajaa. «Il governo israeliano è ostaggio dei coloni», aggiunge, riferendosi all’influenza dei nazionalisti nella coalizione di Benyamin Netanyahu. Mentre il sole tramonta sulle brulle colline dove sorge Susya i ragazzini giocano a pallone, tra rocce e sterpi secchi. I pastori tornano con le pecore dal pascolo mentre le donne preparano la cena, angosciate al pensiero che quello potrebbe essere uno degli ultimi pasti consumati nel villaggio.