Israele non vuole clamore


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(Paola Di Lullo – Cisgiordania) – Sono svariati i modi in cui i Palestinesi resistono, alcuni tengono vive la cultura e le tradizioni, altri si barricano in case che rifiutano di lasciare, anche se sotto minaccia dei coloni e dell’esercito israeliano, o a rischio di demolizione, altri ancora si ostinano a piantare olivi, continuamente dati alle fiamme dagli israeliani, quasi tutti insegnano ai loro figli, sin da piccoli, cosa vuol dire essere Palestinesi, altri  rifiutano di piegarsi nei gesti di tutti i giorni, senza mai arretrare, mai arrendersi ad una realtà che dall’esterno è soffocante ed umiliante.

Altri ancora, continuano a rivendicare il diritto al ritorno dei profughi, l’illegalità della detenzione amministrativa e della detenzione dei Palestinesi in carceri che si trovano in territorio israeliano, in palese violazione dell’art. 76 della IV Convenzione di Ginevra. Tutti però sono fisicamente, non solo affettivamente, legati ad ogni centimetro quadrato della loro terra, anche di quella che è stata loro sottratta, che continuano a percepire come parte di sé stessi, non per diritto di proprietà, ma per senso di appartenenza. La Palestina potrà essere occupata ancora ed assumere nomi di volta in volta sempre diversi, ma per i Palestinesi e per chi la ama è e sarà sempre Palestina. E non è una sfida alle leggi ed alla comunità  internazionale che hanno riconosciuto Israele come stato, ma non la Palestina; è l’inalienabile diritto di un popolo a rivendicare come propria quella terra da estranei martoriata.

In alcuni villaggi, le manifestazioni contro il muro, le colonie illegali e l’apartheid hanno assunto cadenza settimanale. Si tratta per lo più di manifestazioni pacifiche, organizzate dai Comitati Popolari di Resistenza Non Violenta, il cui scopo è quello di attirare ed avvicinare più persone possibili alla causa palestinese e di mostrare al mondo, troppo spesso cieco o succube dei media di regime, che i Palestinesi vogliono la pace, non la guerra. Sebbene la risoluzione 3070 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU riconosca “il diritto alla resistenza, anche armata, di un popolo sotto occupazione, come diritto inalienabile”, le “armi” nelle mani di questi Palestinesi sono le loro bandiere ed i sassi, contro soldati armati di mitra, carri armati e bulldozer.
Le manifestazioni vengono sempre represse dai militari dell’IOF con le armi, che siano lacrimogeni, rubber bullet, proiettili veri, acque putride sparate nelle case.
Abbiamo visitato tre di questi villaggi e di loro scriverò in ordine cronologico, non di popolarità o preferenza, dal momento che reputo di pari importanza le azioni e le dichiarazioni delle persone con cui abbiamo avuto il piacere di parlare.

L’unica manifestazione cui abbiamo partecipato è stata quella che si svolgeva a Bil’in, uno dei tre villaggi su citati. Gli altri due sono Nabi Saleh e Kuffr Qaddoum.
A Bil’in, prima della manifestazione, abbiamo incontrato e parlato con Hamde Abu Rahma, uno dei fotografi del villaggio, insieme ad Haitham Khatib, con cui però, abbiamo scambiato solo poche parole. Per mancanza di tempo, non siamo riusciti ad incontrare Abdallah Abu Rahma né Iyad Burnat, i due leader del Comitato di Bil’in.
Hamde è il giovane uomo dal sorriso scanzonato che avevo imparato a conoscere sui social. Nonostante fosse reduce da una colica renale e, senza che mai venisse meno la sua professionalità, l’incontro è stato informale, amichevole, cordiale.
Hamde ci ha raccontato della sua esperienza di giovane reporter in Palestina e delle motivazioni che hanno spinto gli abitanti del villaggio a cominciare, ma soprattutto a continuare le manifestazioni.

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Nel 2004, il governo israeliano ha iniziato a costruire il muro di separazione sulle terre di questo villaggio, causando la perdita di circa il 70% del suo territorio e un aumento della disoccupazione e della povertà. Gli agricoltori non avrebbero più potuto accedere alle loro terre per il raccolto, ammesso piante e gli alberi fossero sopravvissuti alla distruzione causata dalla costruzione del muro.

Da allora, i cittadini di Bil’in ed i membri di gruppi di solidarietà internazionale sono stati implacabili nelle dimostrazioni pacifiche contro il muro e la vicina colonia israeliana di Modi’in Illit.
Nonostante la mia insistenza nel sostenere che i Palestinesi continuano ad essere “visti” come terroristi da buona parte del “civile” occidente, Hamde ha sempre fermamente ripetuto che loro credono in ciò che fanno e che continueranno perché non vogliono uccidere, perché hanno la consapevolezza di essere dalla parte della verità, della legalità e della giustizia. Ha fermamente contraddetto la mia teoria che nulla stia cambiando, sostenendo, al contrario, che sono sempre più gli internazionali che si avvicinano alla loro causa, israeliani compresi, sebbene in numero esiguo. Alla manifestazione, incontreremo, in fuga dai lacrimogeni, uno di questi giovani israeliani che, candidamente, affermerà che si trova a Bil’in perché “non condivido la politica di occupazione e di apartheid del mio governo”.

Recentemente, ad Hamde è stato negato il visto d’ingresso nel Regno Unito, dove avrebbe dovuto esporre le sue fotografie, partecipare al Palestinian Day di Edimburgo e tenere una serie di conferenze. La motivazione addotta è cheHamde non è riuscito a dimostrare come avrebbe fatto a coprire le sue spese nel Regno Unito, ma per il giovane fotografo la decisione è “un altro atto di ingiustizia contro il popolo palestinese e la nostra causa”.
Per lui la verità è ben diversa, il regno Unito gli ha negato il visto per i suoi tanti contatti con la stampa mainstream, perché avrebbero diffuso le sue interviste e raccontato la verità. Mi dice che in Italia, dove non ha questo genere di contatti, non ancora, aggiungo io, lo hanno lasciato venire, Israele non aveva nulla da temere. Inoltre, un giornalista dell’MSNBC, un canale televisivo via cavo statunitense, che trasmette notizie 24 ore su 24 ed è disponibile sia negli Stati Uniti che nel Canada, gli aveva da poco dedicato un servizio, intervistandolo, nel suo villaggio Troppo clamore per un reporter Palestinese!

Quando gli chiedo perché altri reporter vengono arrestati o uccisi, risponde sorridendo che lui fa solo il suo lavoro, documenta la realtà, smentendo con i suoi video molte delle dichiarazioni dell’esercito israeliano, compresa quella che i Palestinesi sarebbero a volto coperto durante le manifestazioni, mentre i soldati avrebbero il volto scoperto. I Palestinesi, ed anche gli internazionali, coprono il volto per ripararsi dai lacrimogeni che, se arrivano ai polmoni, possono causare seri problemi respiratori e che, anche solo inalati da lontano, non sono stati tollerati dalla mia gola né dai miei occhi. Alcuni di loro, come Hamde, che devono avvicinarsi alla testa della manifestazione, adoperano maschere antigas, sempre per lo stesso motivo. Non risulta però chiaro perché i soldati israeliani coprano i loro volti e, soprattutto, perché Israele neghi l’evidenza.

Inoltre, Hamde sostiene che, se fosse arrestato, ci sarebbe troppo clamore, per i suoi contatti e perché sarebbe un arresto senza motivazioni, di cui, però, a differenza degli altri, si parlerebbe. Ma Israele non vuole troppo clamore. La stessa situazione si presenterebbe se lo uccidessero, come con troppi altri accade, e quindi, per ora, finché ha la sua macchina fotografica, i suoi contatti e la sua credibilità, lo lasciano libero.

Abdallah è stato invece arrestato perché lui organizza le manifestazioni settimanali che Israele continua a ritenere “istigazione alla violenza”, è stato ritenuto colpevole di “incitamento” e di “organizzazione di manifestazioni illegali”. Le manifestazioni nei territori occupati sono interamente vietate dal diritto militare israeliano, il che significa che qualsiasi protesta o corteo è considerato illegale. Inoltre, anche l’accusa di “incitamento” non significa necessariamente l’incitamento alla violenza, ma si riferisce a qualsiasi forma di rivolta o di protesta.
Avrei continuato a parlare per ore, ma è tardi, la manifestazione sta cominciando, quindi si va, passando dinanzi al luogo in cui, nel 2009, i soldati israeliani uccisero Bassem Abu Rahma, cugino di Hamde. Abbiamo tutti gli occhi lucidi e non è colpa dei lacrimogeni.

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