ANALISI/ Il Grande Israele dal Nilo all’Eufrate. Una strategia che prende forma


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di Myrna Naoum-Ghazieff

Da mesi, il sud del Libano vive in una pericolosa parentesi in cui la parola «cessate il fuoco» non ha più nulla di una sosta, ma somiglia piuttosto a un respiro strappato tra due deflagrazioni. Le violazioni ripetute, i sorvoli di droni, i raid, i colpi d’arma da fuoco, la lenta avanzata di strutture in cemento lungo — e talvolta oltre — la Linea Blu delineano una realtà che va ben oltre la semplice logica securitaria. Ciò che si costruisce laggiù non ha solo l’aspetto di un muro: è un’impronta, un gesto che cerca di iscriversi nel tempo.

Man mano che questi incidenti si moltiplicano, il silenzio internazionale, invece, persiste. Un silenzio pesante, quasi complice, in cui le timide condanne si perdono nell’aria come confessioni sussurrate troppo piano. Il governo libanese protesta a mezza voce, le grandi potenze invitano tutte le parti alla moderazione, eppure il paesaggio cambia, centimetro dopo centimetro, posizione dopo posizione, senza che nessuno sembri davvero deciso a frenare questa dinamica.

Molti vi vedono la semplice continuazione di un complesso scontro regionale; altri, più attenti agli strati profondi della storia, riconoscono in questi movimenti l’eco di un vecchio progetto. Non si tratta soltanto di mettere in sicurezza una frontiera, ma di ridisegnarla. L’idea di un «Grande Israele», ampiamente documentata da storici come Ilan Pappé, non è un mito nato su internet. È visibile nei diari personali di ex dirigenti (Moshe Sharett…), in alcuni scritti di pensatori sionisti, in momenti della storia in cui l’espansione territoriale non era un tabù, ma un’ambizione discussa apertamente. Il lungo corridoio ideologico che va da Ben Gurion ad alcune correnti politiche attuali non è mai stato completamente chiuso.

In questa prospettiva, ciò che accade dall’ottobre 2023 non appare più come una reazione puntuale a un evento tragico, ma come un’accelerazione. La guerra a Gaza, con il suo corteo di orrori, ha creato una zona di non-diritto emotivo in cui tutto sembra permesso in nome della «sicurezza». Ma dietro i bombardamenti e l’asfissia di un popolo, alcuni analisti scorgono un movimento più profondo: il tentativo di porre fine alla questione palestinese non tramite la negoziazione, bensì attraverso la cancellazione. La cancellazione territoriale, demografica, politica.

Per quanto riguarda la Cisgiordania, lentamente erosa da decenni, oggi si trova in una situazione in cui l’annessione di fatto non è più un’ipotesi, ma uno stato quasi consolidato.
La riaffermazione politica dell’obiettivo di una sovranità israeliana su tutto il territorio compreso tra il Giordano e il Mediterraneo mostra una coerenza con i progetti di annessione avanzati da decenni. In quest’ottica, «risolvere» la questione palestinese prima di occuparsi delle frontiere regionali potrebbe costituire la logica strategica di un progetto più ampio, nel quale i confini del Libano, della Siria e persino della Giordania, e anche oltre (Iraq, Egitto, Arabia Saudita?), diventano zone di pressione o di trasformazione.

E man mano che lo sguardo internazionale si abitua a questa realtà, il Libano — indebolito, frammentato, esausto — diventa una frontiera più vulnerabile, un territorio più facile da intaccare. La storia è piena di momenti in cui le ambizioni geopolitiche hanno approfittato delle falle degli Stati vicini. Molti in Libano ricordano che questo Paese è già apparso in mappe, discorsi, appunti strategici israeliani che sognavano acqua, profondità strategica o semplicemente un indebolimento duraturo del vicino del nord.

Ciò che oggi preoccupa non è soltanto la ripetizione delle frappes o la comparsa del muro di cemento. È la coerenza. La coerenza di un movimento che avanza per piccoli passi, senza mai presentarsi per ciò che è. Una normalizzazione del fatto compiuto. Una strategia che non si annuncia, ma si dispiega. Quando i muri spuntano nelle zone contese, quando le posizioni militari non sono più temporanee, quando le frontiere diventano spazi malleabili, non è più semplicemente la guerra a esprimersi, ma la volontà di ridefinire il territorio.

Si può discutere il termine, dibatterne, respingerlo o adottarlo, ma una cosa è certa: ciò che si gioca oggi tra Gaza, la Cisgiordania e il sud del Libano non è altro che una ricomposizione regionale in cui la debolezza degli Stati vicini, la paralisi internazionale e le ambizioni ideologiche dei sionisti convergono in modo pericoloso.

Il Libano, che osserva tutto ciò con rabbia, stanchezza e incredulità, vede bene che il diritto internazionale non basta più a proteggere le frontiere, mentre al tempo stesso gli si chiede di liquidare il suo movimento di Resistenza, quando il suo Esercito è impedito dal possedere alcune armi essenziali alla difesa del territorio. E la solidarietà delle potenze, spesso condizionale e selettiva, non ha mai impedito ai progetti imposti con la forza di estendersi. Il vero pericolo non risiede solo nelle violazioni militari, ma nell’abitudine. L’abitudine alle violazioni, l’abitudine al silenzio, l’abitudine al fatto compiuto. È in questo spazio che le frontiere si ridisegnano e che i popoli si ritrovano, senza essersene accorti, spostati sulla scacchiera di una strategia più vasta.

E se non si vuole che il sud del Libano diventi la prossima zona «riammodernata» di un vecchio sogno espansionista, sarà necessario che questo silenzio internazionale si rompa prima che i muri diventino frontiere e che le frontiere diventino certezze.

Riferimenti / Fonti

– Ilan Pappé, The Idea of Israel, The Ethnic Cleansing of Palestine
– Documenti e testimonianze storiche di David Ben Gurion e Moshe Sharett
– Dichiarazioni e rapporti della FINUL / ONU sulla Linea Blu
– Analisi storiche del sionismo politico (Jabotinsky, Piano Daleth e altri)
– Lavori di studiosi critici del sionismo (Ilan Pappé, Shlomo Sand e altri)
– Stampa internazionale e regionale (L’Orient-Le Jour, The National, rapporti delle Nazioni Unite)


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