
(Francesco Levoni) – Dopo il recente attacco israeliano che ha colpito in profondità le strutture militari e strategiche dell’Iran, Teheran si trova davanti a un bivio drammatico. Da un lato, la necessità politica e simbolica di rispondere per salvare la propria credibilità interna e regionale; dall’altro, una reale incapacità operativa a causa dei danni inflitti alle sue infrastrutture missilistiche e all’indebolimento dell’apparato dei Pasdaran. La Repubblica Islamica è oggi in ginocchio sul piano militare ma non può permettersi il silenzio: la ritorsione appare inevitabile, seppure limitata e potenzialmente più mediatica che letale.
A delineare con chiarezza questo scenario è stato Danny Citrinowicz, ex alto ufficiale dell’intelligence militare israeliana, oggi ricercatore senior all’Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv. In un’intervista rilasciata a LaPresse, ha spiegato che “l’Iran si trova davanti a un grande dilemma: devono attaccare Israele, ma la maggior parte delle loro basi missilistiche è stata distrutta o danneggiata”. La portata degli attacchi israeliani ha colpito non solo depositi e siti strategici, ma anche l’ossatura della catena di comando dei Guardiani della Rivoluzione. Sono cadute, secondo fonti regionali, figure chiave dell’apparato militare, privando il Paese di risorse fondamentali per organizzare una controffensiva rapida e coordinata.
In questa condizione di estrema vulnerabilità, l’Iran rischia una spirale da cui è difficile uscire. Secondo Citrinowicz, “è difficile credere che Teheran non risponderà, ma al momento non sa come chiudere l’escalation e si trova esposta”. Il timore più grande, per gli analisti, è che una reazione impulsiva possa innescare una nuova fase del conflitto, questa volta con obiettivi civili o infrastrutturali al centro del mirino, come gli impianti energetici iraniani o – come minaccia velata da parte israeliana – i vertici stessi del regime.
A rafforzare la posizione dell’ex 007 israeliano, anche le analisi condotte dal Washington Institute for Near East Policy, che sottolineano come l’Iran, dopo l’attacco, “sia stato riportato indietro di almeno tre anni nel suo programma di capacità missilistica a lungo raggio”. Un prezzo altissimo, che lascia spazio a risposte simboliche, ma non a una guerra su larga scala.
Non meno complessa è la situazione sul piano diplomatico. L’attacco israeliano, secondo più fonti internazionali, avrebbe ricevuto un tacito via libera da parte dell’amministrazione Trump, convinta che l’indebolimento dell’Iran possa costringerlo a tornare al tavolo delle trattative sul nucleare da una posizione di subordinazione. Ma Teheran, oggi più che mai, non sembra intenzionata a cedere: “Per l’Iran tornare al tavolo significherebbe una capitolazione. Pensano: ‘ci siamo seduti con buone intenzioni, invece Trump ha dato il via libera all’attacco israeliano. Perché dovremmo sederci di nuovo?’”, ha dichiarato Citrinowicz.
Il tempo gioca un ruolo cruciale. Israele ha agito nel momento in cui l’Iran stava ancora ricostruendo la propria rete di difesa e, al contempo, avanzava sul fronte nucleare. “Era un’opportunità d’oro”, osserva Citrinowicz, “ogni giorno che passava significava nuove minacce potenziali”. L’azione preventiva, strategicamente impeccabile, ha però aperto uno scenario in cui l’Iran è costretto a mostrare i denti, pur non avendone più la forza.
In definitiva, la risposta di Teheran – se ci sarà – sarà dettata più da logiche di prestigio e coesione interna che da reali ambizioni militari. Ma ogni colpo, anche simbolico, potrebbe riaccendere un conflitto su vasta scala, in una regione già sull’orlo della deflagrazione. L’Occidente osserva, consapevole che dietro ogni scelta si gioca molto più di un semplice braccio di ferro: si gioca l’equilibrio dell’intero Medio Oriente.