(bruno Scapini) – Il dramma del popolo armeno sembra non conoscere mai più fine. La persecuzione infatti di cui esso é stato storicamente vittima – dagli eccidi della fine dell”800, perpetrati dai turchi ottomani (meglio noti come “massacri hamidiani” dal nome del sultano Abdul Hamid II) al Genocidio del 1915 – perdura ancora in tutta la sua efferatezza, anche se sotto forme e secondo modalità differenziate per tempi e circostanze.
Oggi è il Nagorno Karabagh (Artsakh in lingua armena), l’antico oblast sovietico conteso tra Armenia e Azerbaijan, ad offrire il pretesto ai secolari nemici turcomanni per una rinnovata mobilitazione di odio e di violenza contro gli armeni. L’oblast era peraltro divenuto indipendente già nel 1992, per legittima secessione dall’URSS secondo le previsioni della legge sovietica del 3 aprile 1990 di cui lo stesso Azerbaijan ha usufruito.
Senza scendere in dettagli sulle origini della controversia che vede le due Capitali, Yerevan e Baku, confrontarsi per il controllo del Karabagh, basti qui cennare, a meglio comprendere la situazione, come per trent’anni ormai, nonostante le continue trattative condotte dai due Governi nel contesto negoziale dell’OSCE, la questione della definizione dello status del Nagorno Karabagh sia rimasta del tutto e sorprendentemente irrisolta. Non solo, ma si é parallelamente registrato nel corso degli anni un pericoloso crescendo di conflittualità che ha condotto a continue violazioni del “cessate-il-fuoco”, a uccisioni di militari e civili armeni, per mano di cecchini azeri, e a omicidi a danno di armeni rimasti vergognosamente impuniti, come per esempio nel “caso Safarov”.
Tensioni, queste, che sono più recentemente sfociate in un primo tentativo, fallito, di aggressione militare da parte dell’Azerbaijan nell’aprile del 2016 ( la guerra dei 4 giorni ) e da ultimo in una invasione da parte azera nel settembre del 2020 che ha condotto ad una vera e propria guerra a tutti gli effetti dagli esiti devastanti per l’Armenia per via della perdita di un altissimo numero di vite umane e di gran parte dei territori già acquisiti nel 1994 e da quell’anno fatti sempre oggetto di trattative inconcludenti. Si ricordano in proposito, per chiarezza narrativa, i 10 punti degli accordi di Madrid che prevedevano una loro restituzione all’Azerbaijan in cambio del riconoscimento da parte di quest’ultimo dell’indipendenza del Karabagh.
Su questo sfondo, dunque, fatto di perduranti insincerità negoziali, di efferatezze e di violenze si innesta ora l’ennesimo episodio di brutale aggressione ed angheria: il blocco del corridoio di Lachin. Perché tanto importante questa piccola e stretta fascia di territorio?
Il corridoio di Lachin é oggi, dopo l’esito catastrofico della guerra del 2020, l’unico punto di transito e di collegamento che unisce il Nagorno Karabagh all’Armenia. Orbene, dal 12 dicembre scorso il blocco del passaggio effettuato da sedicenti “ambientalisti” azeri – prima per protesta per un preteso inquinamento che deriverebbe dallo sfruttamento delle locali miniere, poi a causa della possibile presenza di mine che gli armeni avrebbero piazzato lungo i confini – ha di fatto causato una profonda crisi umanitaria avendo privato il popolo del Nagorno Karabagh di ogni via di comunicazione per l’approvvigionamento di derrate, presidi sanitari e quant’altro. Un blocco che di fatto si è tradotto in un forzato isolamento con tutte le nefaste conseguenze che da esso deriverebbero per la sopravvivenza stessa della popolazione.
Nonostante gli appelli lanciati da diversi Governi e una risoluzione adottata sulla crisi dal Parlamento Europeo, affinché il Governo azero intervenga nel rimuovere l’assurdo e tanto esecrabile blocco, Baku appare al contrario irremovibile nel proseguirlo sostenendo indirettamente i manifestanti “ambientalisti” i quali, più che espressione di una libera protesta, sembrano vere e proprie pedine strumentalizzate ad arte dal Presidente azero, Ilham Aliyev, vittimizzando il già provato popolo armeno del Nagorno Karabagh.
Un’azione ingiusta ed eticamente spregevole se solo si pone mente al sordido obiettivo che tale tattica azera si prefigge: costringere gli armeni del Karabagh ad abbandonare per disperazione le loro case e la loro terra o obbligarli in alternativa, e in disprezzo dei valori legati al rispetto della persona umana, ad assumere la cittadinanza dello Stato nemico. Una politica di “pulizia etnica”, quindi, assolutamente da abiurare che, vergognosamente condotta dal Presidente azero in forza della spavalda arroganza che gli stessi Governi europei ed occidentali gli consentono per il loro vile assoggettamento alle forniture energetiche di Baku, si scontra con le più elementari sensibilità umanitarie per divenire essa stessa, per il diniego di solidarietà e di indulgenza che sottende, un vero crimine contro l’Umanità. Ma l’Occidente tace e, col protrarsi del blocco dissimula contrizione, o finge in qualche occasione di condannare l’inerzia dolosa di Baku. Ma i Diritti Umani, così protervamente annunciati dalle grandi potenze democratiche, non sono forse valori universalmente riconosciuti e applicabili a qualunque popolo e in qualunque luogo? O, come la recente Storia più realisticamente ci insegna, non sono invece merce ideologica negoziabile nelle pieghe dei più miserevoli mercimoni commerciali?
“Ai posteri l’ardua sentenza!” scrisse Alessandro Manzoni nell’astenersi dal dare un giudizio sulla controversa figura di Napoleone Bonaparte. E allora, vista la ambiguità imperante nel nostro tempo della cultura politica occidentale, e considerata la doppiezza della coscienza di cui certi politici preferiscono oggi ammantarsi, c’é da chiedersi se anche in questo caso convenga ai deboli di spirito sospendere il giudizio e lasciare a qualcun altro in futuro la giusta valutazione dei fatti.
Bruno Scapini – già Ambasciatore d’Italia in Armenia, Presidente Onorario e Consulente Generale Ass.ne Italo-armena per il Commercio e l’Industria