di Bruno Scapini
Si fa gran parlare in questi giorni, a distanza ormai di due settimane circa dal fatidico referendum britannico sulla prospettiva europeista, degli effetti nefasti che un eventuale “no” di quell’ elettorato potrebbe avere.
Le gravi conseguenze che diffusamente si temono per una uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea si ripercuoterebbero – si afferma generalmente – su tutta l’Europa, sull’economia mondiale, sulla finanza internazionale, come anche sulla stessa Gran Bretagna che si vedrebbe esclusa da quel miracoloso progetto che va sotto il nome di “costruzione europea”.
Non v’è dubbio che una gran parte dell’elettorato britannico abbia da sempre manifestato una disaffezione per Bruxelles. Tant’è che Londra non ha mai aderito in tutto al progetto europeo restandone esclusa, per esempio e significativamente, dall’Unione monetaria.
Del pari, anche in diversi altri Paesi – non esclusa l’ Italia – si sono affermate nel corso degli anni tendenze politiche contrarie all’Europa. Gli “euroscettici” non sono una realtà dell’ultimo momento, ma hanno costituito da sempre una componente dello scenario politico europeo con cui sia Bruxelles, sia i Paesi “ben pensanti” hanno dovuto confrontarsi cercando e inventando strategie di vario tipo e denominazione per aggirare l’ostacolo di una opposizione che purtroppo andava espandendosi sempre più. Un’opposizione che si sarebbe nutrita degli intramontabili nazionalismi e, sopratutto, dei tanti fallimenti di Bruxelles nel presentarsi come una forza univoca e convincente nella sua proiezione mondiale.
L’ Europa – sappiamo – come progetto unitario di cooperazione, è stata voluta alla fine della Seconda Guerra Mondiale per pacificare un continente turbolento ed evitare – attraverso i lacci di una integrazione economica – il ripetersi delle catastrofi belliche che tanta devastazione avevano comportato. Il processo di costruzione europea è così passato attraverso varie fasi e livelli. E ne sono prova i vari Trattati che hanno, a tappe, consolidato i risultati di volta in volta sempre faticosamente raggiunti nel tentare soluzioni gradite a tutti e, in fondo, a nessuno. Il modello di questa costruzione è stato pertanto presentato per immagini, e talvolta anche molto suggestive come “ Europa a geometria variabile” o “ Europa a due velocità” e così via. Tutte definizioni peraltro indicative di una sostanziale difformità di intenti e di interessi tra i vari Paesi membri passati dagli originari “6“ agli attuali “28” a seguito delle più recenti nuove adesioni.
Ma si è anche notato come a questo processo, forzatamente voluto da alcune influenti “elite”politiche e dagli stessi Stati Uniti – interessati ad una Europa sì unita ma non del tutto “unificata” – sia andato ad affiancarsi un atteggiamento scettico, che ha indotto in modo diffuso una sottile contrarietà al progetto stesso. E ciò, vuoi per il malcontento di varie categorie economiche dei Paesi membri, colpite da improvvidi provvedimenti adottati dai burocrati di Bruxelles, vuoi per le resistenze di alcuni Paesi forti a rinunciare alle loro prerogative storicamente consolidatesi.
Oggi, dunque, ci troviamo – da come appare dai comportamenti tenuti dai vari soggetti interessati – ad un bivio: o continuare lungo la strada di una convinta costruzione europea, di cui però non si intravvede nessuna credibile proposta, o mantenere lo “status quo”, con un invariato “acquis” comunitario col rischio di dover riconoscere nei fatti una libertà di uscita dall’Unione reclamata dai Paesi e dagli elettorati più scettici.
Certamente l’Europa non ha mostrato negli ultimi tempi un’immagine di sé convincente: la incapacità a trovare una soluzione idonea a scavalcare la crisi economica, la maldestra gestione dei flussi migratori – che hanno scoperto i nervi deboli di una Bruxelles non in grado di affrontare la prima vera minaccia alla integrità europea – , il difetto costituzionale di non saper trovare né forme, né contenuti ad una politica estera veramente unitaria che consenti ai Paesi membri di parlare al mondo con una “voce sola” , e ,infine, il peso gravoso di dover gestire, in conseguenza degli improvvidi ultimi allargamenti, processi decisionali in un contesto dinamico “a 28”, sono altrettante cause di questa crescente disaffezione per l’ Europa che trova espressione proprio nelle varie dichiarazioni degli “euroscettici” e oggi, in particolare, nel referendum britannico. Tutti sembrano temerlo nel risultato negativo. Il Presidente della Commissione Europea, Junker, minaccia di escludere la Gran Bretagna – nel caso di vittoria del “no”- da tutti i vantaggi che l’appartenenza all’ U.E. comporta, gli economisti si lanciano in pronostici pessimistici sull’andamento dei mercati prevedendone il crollo, lo stesso Cameron agita lo spettro di una spaccatura dell’elettorato britannico con una temuta contrazione degli investimenti e la caduta libera del Paese nel buio di una irrecuperabile “austerity”, e gli europeisti, infine, si lasciano indurre da nebulosi vaticini profetizzando un devastante effetto “domino” che un’uscita di Londra dall’ U.E. potrebbe implicare.
Insomma, una “Brexit” sconvolgente è percepita dai più. Una “Brexit” che arrecherebbe danni irrimediabili all’economia globale, per via delle sue negative esternalità, e alla stessa Gran Bretagna che precipiterebbe così in una ancora più profonda crisi interna economica e politica.
Ma a salvare l’ Europa probabilmente verrà ancora una volta l’ America.
Obama si è infatti schierato con Cameron per un mantenimento della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Una posizione, questa, non senza valide motivazioni per Washington che, se favorevole al progetto europeo, per quanto basti a mantenere le condizioni di una gestibile cooperazione e sicurezza sul continente in funzione anti-russa, si oppone invece ad una Europa veramente federale la cui capacità unitaria di azione verrebbe a compromettere in prospettiva la esclusività di quel “mandato” imperialista che gli USA, ormai da qualche tempo, perseguono a livello planetario.
Allora, sì all’Europa della cooperazione e del TTIP. E sì dunque, anche, al mantenimento della Gran Bretagna nell’ Unione Europea quale avamposto irrinunciabile di Washington per esercitare a distanza – per mano di Londra – una efficace azione di vigilanza e di controllo sull’impenitente Vecchio Continente