Colombia. Gustavo Petro, il coraggio della sovranità


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(Federica Cannas) – Il 24 ottobre 2025 Bogotá ha vissuto una delle giornate più intense della presidenza Petro. La “Marcha por la Paz, la Soberanía y la Democracia”, convocata dal governo, ha riempito la Plaza de Bolívar e molte altre città del Paese. Il segnale politico è inequivocabile. La Colombia che sostiene Petro è viva, organizzata e pronta a difendere un progetto che rompe con le subordinazioni storiche.

Sul palco, il presidente ha rilanciato la campagna per l’Assemblea Nazionale Costituente, raccolta di 2,5 milioni di firme per riformare le istituzioni e consolidare il nuovo corso sociale. “Non ho né voglia né intenzione di fare affari con chi calpesta la dignità dei popoli”, ha dichiarato, riferendosi esplicitamente agli Stati Uniti. La frase, ripresa da El Tiempo e El Espectador, sintetizza il senso di una giornata che ha intrecciato politica interna e geopolitica globale.

Le motivazioni della marcia sono chiare. Prima di tutto, difendere la sovranità. Petro considera le recenti pressioni di Washington – sanzioni, accuse, dazi – una minaccia alla democrazia colombiana.
Poi, sostenere le riforme sociali: lavoro, pensioni, sanità, istruzione. Temi centrali per i sindacati e per quella parte del Paese che vede in Petro un’occasione di riscatto. Infine, rafforzare la partecipazione popolare, perché il potere costituente, nelle parole del presidente, deve tornare “nelle mani del popolo e non dei privilegi”.

Le immagini della Plaza de Bolívar, con le bandiere che si muovono al ritmo dei tamburi, hanno riportato alla mente le grandi mobilitazioni latinoamericane degli anni Settanta e Ottanta. Solo che questa volta non è un’opposizione a sfilare, è un governo che chiede al suo popolo di camminare insieme per riformare lo Stato.

Mentre affronta lo scontro con Washington, Petro si è distinto anche sulla scena internazionale per la sua posizione chiara sul conflitto israelo-palestinese. È uno dei pochi capi di Stato che ha parlato fin da subito apertamente di genocidio a Gaza, condannando le operazioni militari di Israele. Ha chiesto alla comunità internazionale di organizzare uno sciopero generale mondiale a sostegno della popolazione palestinese e della Flotilla Global Sumud, che tenta di portare aiuti nella Striscia. Ha dichiarato che “il silenzio davanti all’orrore è complicità”.

Parole che gli hanno attirato critiche da governi occidentali ma elogi in America Latina e nel Sud Globale. Página/12 ha definito la sua posizione “un atto di coraggio diplomatico” in un continente dove molti preferiscono il silenzio per timore di rappresaglie economiche. Petro, invece, ha scelto di restare coerente con la sua idea di pace come diritto universale e con la visione di una politica estera umanista e indipendente.

A metà ottobre 2025, l’amministrazione statunitense ha inserito Gustavo Petro, la primera dama Verónica Alcocer, il figlio Nicolás e il ministro dell’Interno Armando Benedetti nella Lista Clinton (OFAC), congelando eventuali beni e vietando transazioni con entità americane. Trump ha accusato il presidente colombiano di essere “il capo del narcotraffico in Sud America”, annunciando la sospensione degli aiuti economici, l’inasprimento dei controlli antidroga e nuove tariffe commerciali. Un linguaggio da Guerra Fredda che ha indignato Bogotá.

Petro ha replicato in diretta: “La Colombia non è un protettorato. Le sanzioni non piegheranno la nostra sovranità”. Ha denunciato un “atto arbitrario e neocoloniale” e ricordato come le politiche imposte da Washington abbiano alimentato violenze e disuguaglianze senza ridurre il narcotraffico.
Mentre Trump alza i toni, Petro risponde con la piazza e con un linguaggio politico che rievoca la stagione più alta del pensiero latinoamericano.

Nella nuova geografia politica regionale, la Colombia di Petro si colloca accanto ai governi progressisti di Lula in Brasile, Gabriel Boric in Cile, Yamandú Orsi in Uruguay e Claudia Sheinbaum in Messico.
Un’area di convergenza che non si definisce più per ideologia, ma per volontà di autonomia strategica.
Petro propone una diplomazia multipolare, attenta ai rapporti con Asia, Africa e Medio Oriente.
Invoca la riforma delle Nazioni Unite, il rafforzamento della CELAC e una integrazione sudamericana verde e pacifista, capace di affrontare insieme disuguaglianze sociali e transizione ecologica.

In questo contesto, la Colombia non è più l’avamposto militare degli Stati Uniti ma un laboratorio politico.
Un Paese che cerca di costruire pace, redistribuzione e diritti civili in un continente ancora segnato dalla povertà e dalla violenza. Le piazze colombiane raccontano una storia che va oltre il Paese.

In un mondo dominato da mercati e algoritmi, la politica torna alla strada, alle mani della gente.
Petro non usa la piazza come propaganda, ma come strumento di legittimazione democratica. È lì che misura la forza del suo progetto e la fiducia dei cittadini. La Plaza de Bolívar piena di bandiere è diventata un simbolo della nuova Colombia: un Paese che non vuole più essere spettatore delle decisioni altrui, ma protagonista del proprio destino. Tra canti, tamburi e slogan, risuona un messaggio semplice ma potente: “Paz, soberanía y democracia”.

Gustavo Petro è oggi uno dei leader più controversi e coraggiosi del panorama globale. Sfidare gli Stati Uniti, difendere Gaza, chiedere una Costituente e convocare il popolo in piazza è un atto di fede nella democrazia reale. Il prezzo di questa scelta sarà alto, ma segna un punto di non ritorno nella storia latinoamericana. Nel suo modo di governare, confluiscono l’eredità dei movimenti popolari, la memoria di Salvador Allende e l’ambizione di una sinistra capace di ripensare la sovranità nell’era globale.

La Colombia di oggi, con tutte le sue contraddizioni, rappresenta l’idea più viva di un continente che non si arrende. E in quella Plaza de Bolívar, ancora piena di voci e tamburi, la parola “indipendenza” ha ripreso a significare qualcosa.


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