Corsa al riarmo: un’economia di guerra è in prospettiva?


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(Bruno Scapini) – Il liberismo economico fa ora vergognosamente irruzione anche nel dominio del militare. Sconcerta, infatti, la recente approvazione da parte del nostro Senato della proposta di modifica alla Legge 185/90 in materia di controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento. È bastata una sola lettura per far passare il provvedimento, il che dovrebbe pure confortarci – consentiamoci l’ironia – su una sua rapida adozione anche da parte della Camera – ulteriore necessario passaggio istituzionale – perché la modifica possa diventare legge dello Stato.

Orbene, la facilità, pressoché scontata, con cui il Governo riuscirà a completare questa sua iniziativa sarà certamente indicativa non solo del ben saldo allineamento su tale progetto da parte di una maggioranza parlamentare tutta convinta della sua necessità, indipendentemente dal colore politico, ma anche, e soprattutto, della subordinazione alla quale il nostro Paese è costretto a piegarsi nel conformarsi ai diktat imposti dai poteri sovranazionali che ci governano.

Non c’è dubbio: se guardiamo alla questione con animo spassionato, constatiamo come questa  nuova disciplina in materia di armamenti, disponendo per vari profili una sorta di liberalizzazione del mercato di pertinenza (più libertà per imprese e banche, meno controlli e meno trasparenza sulle transazioni) verrà di fatto a rompere drasticamente quella empatia tra etica e commercio di armi che si era  inteso introdurre – non senza fatica nel corso di anni – nel nostro ordinamento con la succitata Legge del 1990. Quest’ultima, infatti, era risultata al tempo espressione di una in fondo prevalente visione pacifista da imporre ai rapporti del comparto industrial-militare per costringerlo ad informare la propria condotta ai superiori principi etici e morali che dovrebbero guidare l’attività di un Governo rispettoso non tanto degli impegni assunti dall’Italia a livello internazionale (in particolare con riferimento alla Carta dell’ONU ed in ambito OSCE), quanto – e ancor più gravemente – dei principi della stessa Costituzione repubblicana che all’art. 11 sostiene espressamente, e senza ambiguità, il “ripudio della guerra come mezzo per la risoluzione delle controversie”.

Orbene, oggi invece si vuole fare piazza pulita delle limitazioni e dei controlli che quella Legge imponeva al commercio delle armi; e né varrebbe a contrastare tale corsa alla militarizzazione ricordare l’impegno dei Governi democratici dell’Occidente a perseguire in passato nella Comunità internazionale una politica sensibile alla non proliferazione degli armamenti.  La parola “disarmo” di cui si sono fatti interpreti in passato – e perfino nei tempi più bui della Guerra Fredda – le stesse superpotenze, è ormai bandita dal linguaggio politico. Chi più osa oggi ricorrere ad essa, infatti, per proporre un’era di conciliazione e di pace nel riconoscimento di una pratica negoziale da far prevalere sul deprecabile ricorso all’uso della forza? Da parte del nostro Parlamento si invoca allora, in disprezzo di qualunque etica solidaristica, uno spirito di “real politik”, e si addita la gravità della situazione internazionale – caratterizzata da un evidente processo di generale destabilizzazione, cui non sarebbero peraltro estranei i soliti poteri negli Stati Uniti e a Bruxelles – come giustificazione per riaprire la corsa al riarmo! Un passo, questo, decisamente dissennato; e ciò in quanto capace di alimentare la conflittualità disseminando armi in un mondo in cui ben più di 350 crisi sono oggi in atto delle quali 70 coinvolgenti direttamente Stati impegnati in veri e propri conflitti armati.  Ma ad apportare ancor più conforto ai nostri decisori governativi in questa spaventosa inversione di tendenza, giungono ora le dichiarazioni belliciste di eminenti quanto insospettabili personalità.

Sulla scia delle posizioni già in precedenza esposte dai vertici militari della NATO e di vari Paesi europei membri sulla “inevitabilità di una guerra con la Russia entro il 2050” e sulla “necessità di preparare le nuove generazioni a tale evento”, si ricorderà che è stato ultimamente il Presidente francese Macron a rompere il ghiaccio sulla opportunità di inviare truppe europee in Ucraina. E la sua dichiarazione, sebbene inizialmente osteggiata – probabilmente per una sottile tattica di graduale convincimento dei cittadini – non è rimasta isolata, bensì ripresa dalla stessa Ursula von der Leyen che proprio nei giorni scorsi incitava l’Europarlamento ad una chiamata alle armi inducendo l’organo di Strasburgo ad approvare una risoluzione in tal senso per favorire la conversione delle industrie europee in belliche e prevedendo un regime di acquisti per le armi esemplato su quello già adottato per la pandemia! Ma è ancora da citare in tale quadro prodromico alla guerra quanto aggiunto dal Segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, il quale ha apertamente affermato come sia inevitabile, dovesse Kiev perdere la guerra, un “intervento diretto della NATO”.

Su queste premesse demenziali troverebbe allora spiegazione non solo l’iniziativa assunta dal Governo Meloni il 24 febbraio scorso a Kiev di sottoscrivere un accordo di cooperazione militare con l’Ucraina (peraltro volto a fornire, non senza un tocco di spavalda spregiudicatezza, a Kiev ogni sostegno bellico fino alla reintegrazione completa di tutti i suoi diritti di sovranità territoriali), ma anche la stessa modifica alla Legge 185/90 di cui sopra è cenno, in quanto funzionale sia ai fini di una più libera produzione e esportazione di armi, sottraendo il Governo al regime vincolistico che prima lo inibiva, sia per evitare, con l’adeguamento della normativa, un possibile, quanto pericoloso, sindacato di illegittimità del suo operato.

Ora però la strada alla commercializzazione di materiale bellico è aperta. Un passo, questo, intrapreso al fine  di poter disporre di un ben più ampio margine d’azione in un contesto europeo che si appresta a divenire, nell’ottica strategica atlantista, la “first line of defence” (“prima linea di difesa”). Uno sviluppo decisamente inquietante che condurrà verosimilmente – qualora il tragico processo di militarizzazione non dovesse conoscere freni – all’avvento in Europa di una vera e propria “economia di guerra”. Un obiettivo, come qualcuno potrà ricordare, già evocato in piena crisi pandemica dall’allora Premier Mario Draghi, lasciando, questi, intendere come l’instaurazione di un regime di emergenza bellica debba considerarsi un evento al quale sarà comunque necessario prepararsi.  Se questa è la prospettiva verso la quale i fatti di oggi realisticamente ci inducono, non deve allora neanche meravigliarci il progetto che lo stesso Draghi va disegnando in esito all’incarico ricevuto dalla Commissione europea di redigere un Rapporto, eufemisticamente definito “sulla competitività”, nel quale – secondo quanto dal medesimo dichiarato in sede di ultimo ECOFIN in Belgio – si ritrovano, articolate in un infernale paradigma, tre fondamentali componenti: la militare, la tecnologica e quella sociale. Ma quest’ultima non per una auspicabile rivalutazione dei popoli europei in un’ottica di loro emancipazione, bensì quale oggetto di mobilitazione per sviluppare la necessaria “resilienza” a fronte degli incombenti bellici imposti.

Forse sarà proprio questa la più temibile delle transizioni che Bruxelles ci propone: il passaggio dal “welfare” di antica memoria a un “warfare” ben più avanzato e gravido di conseguenze letali per tutti noi poveri cittadini europei!

Il corso storico di cui Bruxelles segna il passo è, dunque, disastroso. È evidente ormai. Unica salvezza potrà essere fermare il folle progetto di una militarizzazione dell’Europa sostenendo nelle prossime elezioni dell’Europarlamento quelle forze politiche che, per solidità democratica di programma e per chiarezza di idee, saranno in grado di opporsi alla riconferma, peraltro già preconizzabile, dell’attuale rovinosa, quanto funesta, “leadership” europea.

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