(Fabio Marullo) –Nel mondo odierno, figlio della globalizzazione e della produzione trainata dalla domanda, il commercio e gli investimenti internazionali sono la chiave della crescita economica di un paese. L’incremento delle esportazioni è ancor più importante per l’Europa dove la domanda interna del mercato unico è fortemente depressa e il commercio internazionale permette di importare la crescita estera. Allo stesso modo diventa fondamentale attirare investimenti internazionali soprattutto dal momento che il debito pubblico di molti paesi membri e la conseguente politica economica basata sulla riduzione progressiva della spesa pubblica imposta da Bruxelles su spinta tedesca ha portato ad una notevole diminuzione degli investimenti pubblici.
L’apertura commerciale porta ad una maggiore efficienza delle imprese per l’esposizione a livelli più alti di concorrenza, si generano quindi effetti pro- competitivi: le risorse locali sono impiegate più efficientemente e i prezzi diminuiscono a favore dei consumatori mentre gli investimenti internazionali trasferiscono know-how e nuove tecnologie. La tecnologia a sua volta ha un impatto sulla crescita economica (spillover effects). Ernst & young stima che nel 2015 i nuovi impieghi come effetto degli investimenti diretti esteri nel solo Regno Unito, la maggior parte dei quali altamente qualificati, siano più di 42 mila posti di lavoro.
Dunque la partita che si gioca sui tavoli negoziali è di fondamentale importanza dal punto di vista economico, sociale e delle relazioni strategiche internazionali.
Dal trattato di Lisbona del 2009 la politica commerciale e relativa agli investimenti esteri è diventata competenza esclusiva dell’Unione, la commissione europea quindi conduce il negoziato e stipula accordi che autonomamente obbligano gli stati membri ad allinearsi alle direttive contenutesi.
Negli ultimi anni la tematica degli accordi commerciali, che spesso rimaneva esclusa dal dibattito pubblico per la sua complessità, ha avuta una particolare attenzione da parte dei media mainstream e di alcuni settori della società civile. Ciò è dovuto soprattutto alla negoziazione, iniziata nel 2013, del TTIP (transatlantic trade and investment partnership) un ambizioso accordo commerciale di libero scambio tra UE e USA il cui obiettivo dichiarato è quello di integrare i due mercati, riducendo i dazi doganali e rimuovendo in una vasta gamma di settori le barriere non tariffarie, ossia le differenze legislative e regolamentari che costituiscono una restrizione ai flussi commerciali procedendo quindi con l’armonizzazione reciproca degli standard applicati ai prodotti e ai processi e delle regole sanitarie e fitosanitarie.
Una zona di libero scambio tra USA e UE rappresenterebbe potenzialmente il più grande accordo commerciale regionale della storia, coprirebbe il 46% del PIL mondiale, il 33% del commercio globale di merci e il 42% di quello dei servizi. Il 2 maggio del 2016 Greenpeace Olanda ha reso noto parte dei testi negoziali dell’accordo, ribattezzati dai media come Ttip leaks. Si tratta all’incirca della metà delle bozze dell’intero trattato prima dell’inizio del tredicesimo round di negoziati. Le rivelazioni hanno scatenato l’interesse dei media e da questo momento i negoziati sono stati influenzati dalla società civile, espressasi attraverso manifestazioni e petizioni, dalle iniziative di alcuni esponenti dei governi degli stati membri e soprattutto dal ruolo sempre crescente del Parlamento europeo.
Le principali preoccupazioni pervenute da parte europea riguardano ambiti chiave come la sicurezza alimentare, la legislazione ambientale, i diritti dei lavoratori e la possibilità che il potere sovrano degli stati si indebolisca in favore delle multinazionali. Inoltre molti media europei, anche tradizionalmente favorevoli al liberismo, hanno puntato il dito sul carattere non democratico dei colloqui condotti a porte chiuse e sui rischi della potenziale influenza di lobby e gruppi di pressione capaci di condizionare le politiche commerciai a proprio vantaggio.
Tra i punti del trattato più delicati vi è sicuramente il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (il cosidetto ISDS, Investor-State Dispute Settlement). Le criticità principali riguardano la perdita di autonomia dei governi nel riformare le proprie leggi e programmi in materia di sanità pubblica, sostenibilità ambientale e diritti dei lavoratori. I governi dei paesi firmatari infatti potrebbero rinunciare ad un provvedimento legislativo “nuovo” rispetto a quelli che erano vigenti al momento dell’accordo con l’investitore per non incorrere in sanzioni economiche rei di aver danneggiato gli affari delle multinazionali. Martti Koskenniemi, professore di diritto internazionale presso l’Università di Helsinki, ha avvertito che il regime di tutela degli investitori stranieri previsto nel trattato deposita nelle mani di un tribunale privato e straniero costituito da una ristretta cerchia di esperti legali un potere senza precedenti in grado di depotenziare la legislazione degli Stati firmatari.
Dal punto di vista della protezione del consumatore le differenze tra i due ordinamenti sono ancora parecchie. La materia è diventata per l’UE uno dei principali obbiettivi comunitari e i livelli di tutela raggiunti rappresentano sicuramente un modello unico a livello globale. La principale preoccupazione riguarda la sicurezza dei prodotti alimentari: la lista dell’UE sulle sostanze chimiche pericolose è molto più lunga rispetto a quella americana; per esempio la legislazione europea vieta qualunque trattamento mirato a velocizzare il processo di ingrasso dell’animale tramite steroidi come la ractopamina, al contrario, negli Stati Uniti è permesso l’uso di particolari ormoni della crescita per i capi di bestiame e il trattamento disinfettante del pollame con l’utilizzo di cloro e antibiotici dopo la macellazione. Consentendo l’importazione di tali prodotti, le imprese europee del settore si troverebbero in una posizione di svantaggio competitivo e quindi dovrebbero inevitabilmente abbandonare gli standard a cui siamo abituati per rimanere sul mercato iniziando una corsa qualitativamente al ribasso. Un altro punto di attrito è rappresentato dal contrasto tra indicazioni geografiche e marchi commerciali poiché in questo contesto sono ancora più evidenti gli interessi opposti di Stati Uniti e Unione Europea.
L’UE, infatti, basandosi sulle normative preesistenti soprattutto di Italia e Francia, dal 1992 ha introdotto un complesso di normative nell’ambito dei diritti di proprietà intellettuale per tutelare l’origine e i metodi tradizionali di produzione di alcuni prodotti europei. In questo modo un prodotto che viene commercializzato da un’azienda per potersi definire a scopi di marketing, per esempio, prosciutto di Parma deve essere prodotto a 5km a sud della Via Emilia, fino ad un’altitudine non superiore a 900mt, delimitata ad est dal fiume Enza e ad ovest dal torrente Stirone poiché la denominazione “prosciutto di Parma” è DOP. L’approccio statunitense invece è molto diverso, con alcune eccezioni per vini e liquori, negli USA la salvaguardia è garantita dal solo diritto di marchio. Non vengono protetti quindi i termini generici, cioè nomi comunemente utilizzati per indicare un prodotto, (es. Champagne, Feta, Brie, Mortadella) ma solamente i marchi commerciali (es. Don Perignon, President, Citterio). Come risultato molte IG europee non ricevono alcuna protezione negli Stati Uniti ed alcune sono addirittura illegittime poiché in conflitto con i marchi commerciali già esistenti.
Le trattative del TTIP, progettate per essere finalizzati entro la fine del 2014, hanno invece frenato bruscamente a partire dal 2015. Il commento più significativo sullo stato delle trattative è probabilmente quello di Angela Merkel, la principale sostenitrice europea del trattato, che in un articolo del 17 novembre 2016 (dopo l’ultimo round negoziale) sul quotidiano tedesco Wirtschaftswoche dichiara, per ora, l’impossibilità di concludere le trattative.
Negli stessi anni in cui il TTIP veniva negoziato un altro importantissimo accordo è stato finalizzato dalla Commissione con esiti diametralmente opposti. Denominato in inglese Comprehensive Economic and Trade Agreement, il CETA è un accordo di libero scambio e di cooperazione economica cui sono giunti Unione Europea e Canada dopo 5 anni di incontri iniziati nel 2009 e conclusi con successo nell’agosto del 2014. Il trattato che presuppone gli stessi obbiettivi del TTIP ,se non ancora più ambiziosi, ha visto però la posizione del Canada avvicinarsi molto a quelle che sono diventate le pretese commerciali dell’Unione negli ultimi anni. Il CETA riconosce lo status speciale e offre protezione sul mercato canadese a numerosi prodotti agricoli europei con un’origine geografica specifica. L’uso delle indicazioni geografiche, come Grana Padano, Roquefort, olive Elia Kalamatas o Aceto balsamico di Modena, sarà riservato in Canada ai prodotti importati dalle regioni europee dalle quali provengono tradizionalmente; saranno tutelati ben 179 termini comuni che indicano alimenti come formaggi, salumi e birra.
Al contrario degli Stati Uniti il Canada ha accettato di aderire ai nuovi principi proposti dall’UE anche in tema di ISDS. Il nuovo sistema più equo e trasparente, garantisce l’accesso alle udienze consentendo alle parti interessate (ad esempio le ONG) di presentare osservazioni inoltre il meccanismo dispone di un solido quadro istituzionale per contenere i margini di discrezionalità delle corti arbitrali.
L’accordo non inciderà neanche sulle normative dell’UE in campo alimentare e ambientale. I produttori canadesi potranno esportare e vendere i loro prodotti nell’UE solo se essi rispettano pienamente la pertinente normativa europea, senza alcuna eccezione. Il CETA, quindi, ribadisce chiaramente l’impegno di difendere gli elevati standard dell’UE e di non comprometterli per motivi di interesse commerciale. Questo trattato costituisce un valido punto di partenza per analizzare il ruolo futuro che l’UE intende avere sulla scena internazionale.
Il principio base del cambiamento è perseguire scopi commerciali ed economici senza restringere le tutele a lavoratori, consumatori e all’ambiente che in Europa hanno raggiunto livelli unici nel panorama globale. Il fallimento (temporaneo o definitivo) delle trattative per il TTIP si è rivelato in realtà fondamentale per lo sviluppo di una nuova dottrina grazie all’apporto democratico del Parlamento europeo e della società civile. La contemporanea ratifica del CETA dimostra infatti il mutamento delle priorità europee soprattutto su ISDS, sicurezza alimentare e protezione dell’ambiente, rifiutate dagli Stati Uniti e accettate dal Canada. Lo stesso presidente della Commissione Jean Claude Juncker ha dichiarato che ”L’UE non si inginocchierà davanti agli americani e non getterà al vento i principi che hanno fatto il successo dell’Europa nella dimensione di economia sociale di mercato”. Ma la reale ambizione di Bruxelles va oltre la protezione dei propri standard, il vero obbiettivo strategico di lungo termine è esportarli a livello globale.
Se la via multilaterale sembra impercorribile a causa dello schieramento in blocco dei paesi in via di sviluppo che rifiutano gli elevati standard occidentali per conservare il vantaggio competitivo delle proprie economie, e lo testimonia il fallimento del Doha Round, i trattati bilaterali sembrano una possibilità. Coinvolgere la prima economia mondiale però è indispensabile. Di fatto, l’UE sta cercando di arruolare gli Stati Uniti come partner collaborativo nella promozione di migliori standard a livello internazionale tentando, con il TTIP, di creare un modello di buone regole al quale altri stati potranno ispirarsi. In altri termini l’UE sta tentando, attraverso una nuova politica commerciale, di esportare il suo prodotto di punta: i suoi principi.