Editoriale/ Il vero nemico di Israele è Netanyahu


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(Alessandro Aramu) – Gli ultimi due anni hanno isolato Israele come raramente nella sua storia. Non per un improvviso mutamento d’umore del mondo, ma per scelte politiche e militari imputabili al primo ministro Benjamin Netanyahu e alla coalizione che lo sostiene. A oggi, su Netanyahu pendono mandati di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità; decisioni che restringono i suoi spostamenti e pesano sulla reputazione dello Stato che guida.

Nel contenzioso Sudafrica c. Israele, la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto già dal 26 gennaio 2024 il rischio serio di atti vietati dalla Convenzione sul genocidio e ha imposto misure provvisorie vincolanti; il 24 maggio 2024 ha ordinato a Israele di sospendere l’offensiva su Rafah e di garantire l’accesso umanitario. Queste non sono opinioni: sono ordini della massima giurisdizione ONU.

Sul piano dell’accertamento dei fatti, la Commissione d’inchiesta ONU ha documentato crimini di guerra e crimini contro l’umanità nelle operazioni israeliane, e nel rapporto di settembre 2025 attribuisce a Netanyahu la responsabilità diretta per ordini che costituiscono crimini di guerra, contro l’umanità e il crimine di genocidio. Le accuse sono contestate da Israele, ma il quadro documentale è inequivocabilmente grave.

Sul versante umanitario, la classificazione IPC ha confermato carestia (Fase 5) nel Governatorato di Gaza ad agosto 2025, con oltre mezzo milione di persone in condizioni catastrofiche: fame, deperimento, decessi. È l’effetto congiunto di assedio, distruzione delle infrastrutture civili e accessi umanitari insufficienti.

Le scelte strategiche del governo dipendono anche da ministri di estrema destra che hanno teorizzato pubblicamente la “migrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza e la ri-colonizzazione dell’enclave: parole che in politica diventano programmi. Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir lo hanno ripetuto in comizi e conferenze; esponenti della maggioranza hanno partecipato a raduni per il “reinsediamento” di Gaza. Netanyahu non ha mai sanzionato politicamente questa agenda: di fatto l’ha tenuta in coalizione.

Questa visione—svuotare Gaza, consolidare l’occupazione in Cisgiordania—contraddice sia il diritto internazionale sia l’interesse nazionale israeliano: perpetua il conflitto, alimenta il radicalismo regionale, indebolisce le alleanze storiche.

Il 7 ottobre 2023 Hamas ha commesso crimini di guerra (stragi e sequestri). Lo attesta la stessa Commissione ONU. Eppure, a quasi due anni di distanza, decine di ostaggi restano a Gaza. Non tutto è spiegabile con la malafede e la ferocia di Hamas: i partner ultranazionalisti di Netanyahu hanno più volte minacciato di far cadere il governo in caso di accordo che stabilizzi un cessate il fuoco, condizionando i negoziati. Anche fonti israeliane hanno denunciato la “doppia linea” del premier: conciliatore con Washington, rigido con i negoziatori. Così la finestra per uno scambio si è ripetutamente ristretta.

L’isolamento non è un’invenzione polemica. Dal novembre 2024 i mandati ICC limitano la mobilità del premier; nel 2025 Slovenia gli ha imposto un divieto d’ingresso citando proprio il mandato. Nel frattempo, un numero crescente di Stati—anche occidentali—ha riconosciuto lo Stato di Palestina (tra cui Francia, Regno Unito, Canada, Australia, Portogallo, oltre a Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia nel 2024), portando a 156 i riconoscimenti formali. È il linguaggio della diplomazia che dice: così non si va avanti.

La critica al governo israeliano non è quella di generare con la propria condotta l’antisemitismo. Sarebbe una considerazione superficiale e anche pericolosa. Ma è un dato che l’antisemitismo sia esploso nel mondo dopo il 7 ottobre: record storici di incidenti negli USA (ADL) e nel Regno Unito (CST). L’onda lunga dell’offensiva su Gaza—fornita quotidianamente di immagini di morte e fame—alimenta un clima tossico in cui troppi trasformano l’avversione per le politiche israeliane in odio antiebraico. È un paradosso tragico: la strategia di Netanyahu, lungi dal “proteggere gli ebrei”, li espone a nuovi rischi. Combattere l’antisemitismo richiede de-escalation, diritto, politica, non assedi permanenti.

In patria, il premier è imputato in tre procedimenti (Casi 1000, 2000, 4000: corruzione, frode, abuso d’ufficio). Le udienze sono proseguite anche nel 2024-2025, con un Paese spaccato e piazze piene—dalle proteste contro la riforma giudiziaria a quelle delle famiglie degli ostaggi. Sospendere l’esame pubblico delle responsabilità politiche per il 7 ottobre in nome della “guerra fino alla vittoria” ha solo congelato la resa dei conti, non l’ha evitata.

Chiamare le cose col loro nome non è estremismo: è responsabilità civile. Un capo di governo che sfida ordini della Corte internazionale di giustizia, opera sotto mandati ICC, guida ministri che predicano “migrazioni” di massa e reinsediamenti, e mantiene una guerra che ha prodotto carestia, non difende Israele: lo indebolisce. Netanyahu non è l’agente provocatore di un nuovo antisemitismo, ma la sua politica lo incentiva come riflesso perverso: dissipa il capitale morale costruito in decenni, rendendo più facile agli antisemiti travestire l’odio da militanza politica.

Se Israele vuole tornare forte e sicuro, ha bisogno dell’opposto: rispetto del diritto, centralità degli ostaggi, fine delle ambiguità sulla colonizzazione, convergenza con gli alleati, ricostruzione del consenso interno. È un compito più grande di un uomo, ma oggi passa anche dal superamento della sua leadership.


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