Gaza e il silenzio del mondo. La sconfitta della comunità internazionale e dell’unità araba


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(Federica Cannas) – Ogni bomba su Gaza cade anche su ciò che resta del diritto internazionale. Ogni bambino senza cibo è la prova vivente che le istituzioni create per proteggere l’umanità sono diventate gusci vuoti. Gaza è la cartina di tornasole del fallimento globale.

Non è soltanto il frutto della ferocia di un disegno politico portato avanti da Netanyahu e dal suo governo, è anche la misura del fallimento della comunità internazionale e della fragilità del mondo arabo.
Mentre le bombe continuano a cadere, la diplomazia appare incapace di costruire un argine morale e politico. Le Nazioni Unite, paralizzate dai veti incrociati e ridotte a un’arena di impotenza, non riescono più a rappresentare il principio fondativo per cui erano nate, ossia prevenire la guerra, difendere la pace e tutelare i popoli. L’Europa, prigioniera delle proprie ambiguità, oscilla tra richiami e divisioni che ne limitano l’efficacia.

Il mondo arabo, a sua volta, sembra essersi rassegnato a una debolezza strutturale. La questione palestinese, che per decenni ha rappresentato il terreno simbolico di un’identità comune, oggi appare frammentata e sacrificata sugli altari di interessi nazionali divergenti. Mancano una strategia condivisa e una voce unitaria capaci di opporsi con continuità a una linea israeliana che respinge lo Stato palestinese e prosegue inesorabilmente l’espansione degli insediamenti. I percorsi di normalizzazione bilaterale con Israele, avviati con gli Accordi di Abramo del 2020 e proseguiti negli anni successivi, insieme alle rivalità regionali, hanno indebolito l’azione araba unitaria sulla questione palestinese.

Questa crisi non esplode nel vuoto. È il risultato di decenni di rinvii, di fallimenti negoziali e di un’occupazione consolidata nel tempo, nonostante le ripetute risoluzioni ONU sullo status dei Territori e sull’illegalità delle colonie. Dopo Oslo, la “soluzione a due Stati” è stata spesso evocata senza strumenti concreti per fermare l’espansione insediativa o invertire la frammentazione territoriale.

Sul piano istituzionale, la paralisi è documentata. La Risoluzione 2728 del 25 marzo 2024 del Consiglio di Sicurezza ha chiesto un cessate il fuoco immediato, ma la sua attuazione è rimasta discontinua. Nei mesi precedenti e successivi, i veti incrociati di Stati Uniti, Russia e Cina hanno ripetutamente bloccato altri tentativi di adottare risoluzioni operative sulla crisi di Gaza. In parallelo, la Corte internazionale di giustizia ha indicato più misure provvisorie per prevenire violazioni gravi e garantire gli aiuti, segnalando un obbligo giuridico che però non si è tradotto in un’efficace protezione sul terreno.

Il quadro umanitario è quello di una catastrofe conclamata. Le agenzie ONU hanno descritto l’insicurezza alimentare e la malnutrizione in Gaza a livelli estremi, con conferma formale di condizioni di carestia in parti della Striscia. Il diritto internazionale umanitario tutela l’accesso agli aiuti, l’ostruzione sistemica lo viola.

Il livello di ferocia ha superato ogni possibile immaginazione. La memoria del genocidio vissuto dagli ebrei sulla propria pelle dovrebbe essere monito universale, e invece viene tradita da un governo che oggi infligge a un popolo inerme una condanna quotidiana. Non solo la morte sotto le macerie, ma una vita privata di diritti, svuotata di futuro, resa così insopportabile da negarle perfino la possibilità di essere chiamata vita.

La responsabilità non grava solo su Israele. Gli Stati Uniti hanno garantito per decenni una copertura politica e militare che ha inciso sugli esiti in Consiglio di Sicurezza. L’Unione Europea, pur con prese di posizione rilevanti, resta divisa e quindi meno incisiva. Le potenze emergenti oscillano tra condanne e calcoli di convenienza, senza produrre un’alternativa credibile di governance del conflitto.
Sul versante arabo, il quadro è altrettanto deludente. Paesi che un tempo avevano fatto della causa palestinese una bandiera, sono oggi segnati da crisi interne o da normalizzazioni. E se da un lato l’ Arabia Saudita ha chiarito che non vi sarà riconoscimento senza un percorso credibile verso lo Stato palestinese, dall’altro manca tuttora un’architettura regionale coordinata che trasformi la solidarietà in leva politica.
Gaza, dunque, è lo specchio di una doppia assenza. Quella di istituzioni internazionali svuotate di autorevolezza operativa e quella di un mondo arabo incapace di fare della causa palestinese un cardine strategico comune. In questa voragine di responsabilità si consuma il destino di un popolo, mentre l’opinione pubblica globale assiste, indignata ma impotente.

Ma sarebbe un errore pensare che la partita si chiuda qui. La resistenza palestinese – civile, politica, culturale – continua a esistere, e trova nuova linfa nella solidarietà internazionale che, sebbene frammentaria, cresce nei movimenti giovanili, nelle piazze globali, tra intellettuali e società civile. È lì che si intravede una speranza, lontano dai giochi di potere. Eppure, la storia insegna che nessuna forza di occupazione è eterna. La dignità di un popolo può essere soffocata, ma non cancellata. Gaza chiede giustizia, e la chiede al mondo intero. La domanda è se il mondo avrà il coraggio di ascoltare, o se continuerà a rifugiarsi nel silenzio che trasforma la complicità in corresponsabilità.

Se la comunità internazionale e le sue istituzioni non ritroveranno la forza di difendere i popoli e se il mondo arabo non saprà trasformare la causa palestinese in una vera strategia politica comune, Gaza non sarà soltanto il cimitero della Palestina. Sarà la tomba della credibilità globale.


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