I bambini di Gaza: ostaggi, vittime, comunque incolpevoli. Cosa significa crescere in una prigione a cielo aperto. Le drammatiche testimonianze e l’impegno italiano
I riflettori si sono riaccesi nei “Giorni del sangue”. Sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, nei titoli di testa dei notiziari delle più grandi reti televisive, Gaza è tornata a “fare notizia”. A colpi di morti – oltre cento – e di feriti – oltre 3000 – tragico bilancio, degli scontri per Israele, dei massacri per la dirigenza palestinese, susseguitisi tra i manifestanti e i soldati di Tsahal, l’esercito israeliano, ai confini fra la Striscia e lo Stato ebraico. Poi, più nulla, salvo qualche breve “finestra” informativa tanto per aggiornare su altri “scontri”, su altri morti e feriti. Come sempre. I riflettori si sono spenti di nuovo, attratti da altro sangue, da altri conflitti. E questo è male. Perché la vera, grande tragedia di Gaza e della sua gente, è la normalità. Ed è nella “normalità” che Gaza muore. L’ultimo, documentato grido d’allarme, è stato lanciato da Oxfam. L’assedio sta privando una popolazione di 1,900 milioni di abitanti, il 56% al di sotto dei 18 anni, del bene più vitale: l’acqua.
A quasi quattro anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni dei quasi 2 milioni di abitanti della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo.
Una situazione drammatica, rimarca il report di Oxfam, aggravata degli effetti del decennale blocco di Israele sulla Striscia, di cui le prime vittime sono oltre 1,9 milioni di persone che devono sopravvivere con uno scarsissimo accesso all’acqua e una situazione igienico-sanitaria in continuo peggioramento. Basti pensare che il 95% della popolazione – anche solo per bere e cucinare – dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete.
A questo va aggiunto un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione. I “Giorni del sangue” hanno aggiornato questa tragedia: dieci anni di blocco da parte di Israele – ricorda sempre Oxfam – hanno causato il collasso delle infrastrutture e dei servizi di base per 2 milioni di abitanti intrappolati nella Striscia di Gaza, in maggioranza rifugiati, ormai allo stremo.
Il valico Kerem Shalom, uno dei pochissimi punti di accesso per i beni e gli aiuti in entrata e uscita da Gaza, dopo essere rimasto danneggiato negli scontri di due giorni fa, al momento è aperto solo per il passaggio di pochissimi beni essenziali, insufficienti ai bisogni della popolazione.
Quasi la metà degli abitanti di Gaza non ha cibo a sufficienza, il tasso di disoccupazione è arrivato oltre il 40% e circa 23.550 persone sono ancora senza casa dalla guerra del 2014.
Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare.
Le Nazioni Unite annunciano che entro il 2020 sarà praticamente impossibile vivere a Gaza per la mancanza di energia elettrica, il più alto tasso di disoccupazione al mondo e l’impossibilità per la popolazione di accedere anche a beni essenziali come cibo e, per l’appunto, acqua pulita.
Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65 per cento degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione.
Questa è la vita a Gaza. E i primi a esserne colpiti sono i più indifesi: i bambini, ai quali è negata la gioia dell’infanzia. Per non dimenticare, dunque. A dieci anni dal blocco aereo, marittimo e terrestre della Striscia, un milione di bambini sono costretti a vivere in condizioni inaccettabili.
Più di 740 scuole si trovano in grande difficoltà per la carenza di energia elettrica, che è disponibile per sole 2 ore al giorno. Una limitazione che provoca gravi conseguenze anche per l’interruzione dei servizi sanitari e di emergenza, per l’aumento delle malattie trasmesse dall’acqua per la sospensione della potabilizzazione e il disastro ambientale a seguito del mancato trattamento delle acque reflue.
Se un rapporto delle Nazioni Unite del 2012 dichiarava Gaza a rischio di invivibilità entro il 2020, Save the Children considera Gaza invivibile già oggi: con le condizioni attuali i bambini non riescono più a nutrirsi adeguatamente, dormire, studiare o giocare.
Le forniture di energia elettrica dall’Egitto si sono completamente interrotte e l’unica fonte resta Israele nonché l’impianto di generazione interno di Gaza, che funziona a regime ridotto dopo essere stato colpito nel 2009 e lo scorso aprile si è dovuto fermare per mancanza di combustibile e di fondi per i rifornimenti.
In un documentato report, Save the Children, l’Organizzazione internazionale dedicata dal 1919 a salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro, chiede a Israele di interrompere subito il blocco di Gaza, dove quasi la metà della popolazione non ha lavoro e l’80% sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari, e chiede alle autorità palestinesi e israeliane di fornire i servizi di base indispensabili agli abitanti dell’area.
I 10 anni di isolamento hanno ridotto progressivamente la disponibilità di energia elettrica per le case che ora si limita a due ore al giorno o è totalmente assente per troppe persone.
La mancanza di energia elettrica sta penalizzando un’infrastruttura già paralizzata dal blocco e dal conflitto, costringendo a frequenti e lunghe sospensioni del trattamento delle acque reflue che hanno causato l’inquinamento e la contaminazione di più del 96% delle falde acquifere, non sono più utilizzabili dall’uomo, e del 60% del mare di fronte a Gaza. Ogni giorno si riversano infatti nel mare 108 milioni di litri di acque reflue non trattate, l’equivalente del contenuto di 40 piscine olimpioniche.
“I bambini di Gaza – rimarca Jennifer Moorehead, Direttore di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati – sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di Gaza hanno già sofferto 10 anni di blocco e di minacce continue a causa del conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività”.
La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità.
“Qui è diverso dagli altri paesi che hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità”, dice agli operatori di Save the Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza.
Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età.
Il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all’uccisione di persone.
I sintomi rilevati durante lo studio includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti.
La conseguenza più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (DPTS), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell’individuo a eventi traumatici o violenti.
Si tratta di sintomi frequenti in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico.
Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia ha dichiarato che “a Gaza esiste un problema di conflitto permanente in un contesto dove è difficile intervenire perché è come stare in una scatola sigillata da cui non puoi comunque uscire”.
Secondo Bruce Grant, responsabile Unicef nei Territori Occupati: “per i bambini un evento del genere mina il senso di sicurezza. Non capiscono cosa stia succedendo e si sentono impotenti. A volte possono persino pensare di essere responsabili del disagio sofferto dalla famiglia”.
Fatima Qortoum nel 2008 aveva 9 anni. Ha visto schizzare il cervello di suo fratello, a causa delle schegge di una bomba e quattro anni più tardi, nel bombardamento del 2012, l’altro fratello di sei anni è rimasto ferito ai polmoni e alla spina dorsale. Ad oggi, Fatima soffre di PTSD.
“Non avevamo paura. Siamo abituati a tutto questo. Mio padre ci disse in casa: Gli israeliani stanno cercando di terrorizzarci, ma noi abbiamo la nostra resistenza che li spaventa”, ha raccontato all’Onu Mohamed Shokri, 12 anni.
L’evento-guerra, ovviamente, è il più traumatico per il bambino. Tutto il sistema sensoriale è allertato e colpito profondamente: essere testimoni di massacri, bombardamenti, invasioni militari; vedere soldati, armi, spari, persone uccise; sentire le urla dei feriti, sono tutte sensazioni sensoriali che si imprimono in maniera indelebile nella memoria.
Un anno dopo dall’operazione “Piombo Fuso”, Amal, 10 anni, portava con sé, ovunque vada, due foto di suo padre e di suo fratello morti durante l’attacco. “Voglio guardarli sempre. La mia casa non è bella senza di loro”, spiegava Amal, ferita gravemente alla testa e all’occhio destro.
Il danno fisico non è nulla in confronto a quello psicologico.
Fu trovata quattro gironi dopo l’attacco, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock; era una dei 15 sopravvissuti. Kannan, 13 anni, zoppica per il colpo di pistola ricevuto sulla gamba sinistra. Anche per lui il danno non è solo fisico: prima della guerra del 2014, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Nei mesi successivi alla sparatoria ha avuto ripetutamente degli incubi, si è svegliato spesso piangendo, si spaventa molto facilmente e “non va al bagno da solo” dice Zahawa, sua madre.
Le parole di una animatrice del Ciss (Cooperazione internazionale Sud Sud) descrivono bene i sentimenti dei bambini: “I bambini nei loro racconti, spesso fanno riferimento alla guerra. Dopo che abbiamo fatto il gioco delle sagome, abbiamo notato che i bambini riconoscono i loro occhi e le loro orecchie come punti di debolezza nel loro corpo, spiegando che con gli occhi vedono le distruzioni e con le orecchie sentono il bombardamento.
Invece per quanto riguarda i punti di forza, i bambini rispondono, le gambe perché ci aiutano a fuggire e le mani perché ci aiutano a nascondere la faccia”.
“La prima volta che sono tornato a Gaza dopo la guerra – racconta Akihiro Seita, il direttore dei programmi di salute dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi – sono rimasto impressionato da quanto madri e bambini soffrissero per la portata dei bombardamenti. Tutte le mamme che ho incontrato nei centri di salute dell’Unrwa hanno messo in evidenza come i loro figli si comportassero in maniera diversa durante e dopo il conflitto: alcuni non dormivano più, altri non mangiavano, altri ancora non riuscivano più a parlare. E’ straziante ascoltare questi racconti, ancora di più l’esserne testimone”.
Eyad El Serraj, lo psichiatra che dirige il Gaza Community Mental Health Programme e si occupa dei disordini post-traumatici sui minori dal 1990, dice che per i bambini in cura si va dagli incubi alla difficoltà di concentrazione, dal senso di colpa per essere sopravvissuti, fino al senso di insicurezza e impotenza.
Secondo El Serraj, la relazione che questi bambini hanno con i genitori è distorta perché si rendono conto fin dalla prima infanzia che non sono in grado di proteggerli, e parla di un trauma collettivo che aggrava il conflitto preparando la strada a nuova violenza, in quanto “il conflitto, da un punto di vista psicologico, dà vita a un ciclo di vittimizzazione e aggressione che continua a ripetersi, aggravandosi. I giovani passerebbero attraverso un momento iniziale di totale apatia, in cui si sentono stanchi e impotenti: uno stato d’animo che conduce spesso a gravi forme di depressione e alla fase di vittimizzazione. Poi il conflitto continua e i giovani cominciano a dare segni di forte ansietà e rabbia. E qui comincia la fase di aggressione che conduce a esplosioni di violenza: un ciclo che continua a ripetersi e ad aggravarsi. E a rendere impronunciabile tra i bambini di Gaza la parola “speranza”.