(Alessandro Aramu) – La minaccia degli Stati Uniti di inviare truppe di terra in Siria se Bashar al Assad non ottempererà agli impegni sul cessate il fuoco, frutto di un fragile accordo raggiunto a Monaco di Baviera, si è sgonfiata nell’arco di qualche ora. Frutto di una pressione congiunta di Turchia e Arabia Saudita, che attendono soltanto il via libera della Casa Bianca per mettere gli scarponi sul terreno siriano, quella minaccia si è scontrata con un’altra minaccia, inaspettata per la tempestività con la quale è stata portata avanti.
Mentre il Segretario di Stato americano Kerry chiedeva alla Russia di porre fine ai bombardamenti, specie quelli nella zona di Aleppo, per consentire di fa arrivare gli aiuti umanitari alle popolazioni civili strette nella morsa della battaglia intorno alla seconda città della Siria, l’alleato turco, quasi in contemporanea, bombardava le postazioni dei combattenti delle Unità di protezione del popolo (Ypg), braccio armato del partito dell’Unione democratica (Pyd). Nell’arco di sole 24 ore ore, Ankara ha preso di mira l’ex aeroporto militare di Mengh, riconquistato da poco dalle milizie dell’Ypg e le postazioni curde nell’area di Azaz, a circa 20 chilometri dal confine con la Turchia. In mezzo a questi attacchi, l’artiglieria turca ha trovato anche il tempo di bombardare alcune postazioni dell’esercito siriano nel nord della provincia di Aleppo.
In poco tempo la minaccia degli Stati Uniti, rivolta in primis all’odiato Assad, ha assunto un significato sinistro e quasi beffardo: nelle intenzioni di Erdoğan, schierare le truppe in Siria non comporta infatti la lotta allo Stato Islamico, se non in via del tutto incidentale e causale. Il vero obiettivo, noto da tempo e conclamato in tutte le sue forme, è fermare l’avanzata dei curdi e dell’esercito di Assad. E siccome le due cose in questo momento vanno di pari passo (leggere a proposito il comunicato con il quale l’YPG ha annunciato di schierarsi al fianco di Russia e Siria), da parte di Erdoğan non c’è alcuna intenzione di attaccare gli uomini del Califfato.
Gli Stati Uniti possono sostenere una strategia così folle? Obama è certamente capace di tutto, lo dimostra il totale fallimento della sua politica estera nel nord Africa, nel Vicino e Medio Oriente. Ma qualcosa nella mente dell’inquilino della Casa Bianca deve essere accaduto. Una telefonata con Putin – suggerita dai alcuni consiglieri – ha riportato il tempo indietro di 48 ore. Le minacce di Kerry hanno lasciato il posto a un quasi accordo per intensificare la cooperazione tra le agenzie americane e russe con altre strutture al fine di implementare la dichiarazione di cessate il fuoco del Gruppo Internazionale di Supporto sulla Siria. Rimangono, anche se sfumate, le accuse rivolte al Cremlino di bombardare i ribelli “moderati” e i civili.
Accuse che da Mosca respingono con fermezza, rilevando come nel nord di Aleppo di moderato ci sia ben poco, dato che la maggior parte dei gruppi armati di opposizione sono affiliati ad Al Qaeda e, comunque, hanno una matrice di tipo radicale. Respinta in modo deciso anche l’accusa di bombardare i civili.
Sullo sfondo rimane il grande burattinaio di questa guerra, l’Arabia Saudita che intende sostenere con maggior vigore l’opposizione armata sunnita, anche al costo di entrare in prima persona in un conflitto che ha ridato forza ad Assad e ai suoi alleati sciiti, Iran e gli Hezbollah libanesi.
Per la monarchia del Golfo la priorità non è combattere lo Stato Islamico ma far cadere il presidente siriano, costi quel che costi. Nel corso di una conferenza stampa, il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, ha sottolineato che la caduta di Assad “è solo questione di tempo, prima o dopo il regime cadrà, aprendo la strada per una nuova Siria senza il dittatore”. E l’Arabia Saudita, infatti, non ha perso tempo e ha schierato aerei da combattimento nella base aerea di Incirlik, in Turchia, con il pretesto di “intensificare” le sue operazioni contro l’Is in Siria”.
Operazioni quasi del tutto inesistenti come hanno dimostrato i vertici militari russi. Niente di nuovo dopo tutto. Le posizioni sono note da tempo e il clima da guerra fredda non fa che confermare le molteplici responsabilità dell’Occidente e dei suoi alleati in un conflitto che rischia di avere effetti disastrosi in tutta la regione.
Qualcuno parla di terza guerra mondiale alle porte. Certamente l’ingresso delle truppe saudite, turche ed, eventualmente, statunitensi aprirebbe scenari imprevedibili. A quel punto l’Iran non farebbe fatica a muovere il suo imponente arsenale bellico contro Riyadh, in Siria come in Yemen dove i sauditi sono responsabili di atroci crimini di guerra, del tutto silenziati dai media e dalle istituzioni internazionali. Il vice capo di Stato maggiore iraniano, Masoud Jazayeri, ha infatti ammonito Riyadh sul prospettato intervento di terra: “Non lasceremo che la situazione in Siria vada come vogliono le nazioni ribelli, prenderemo le misure necessario in tempo”. L’ipotesi di invio di truppe saudite sul terreno siriano è comunque considerato un “bluff”, un atto di “guerra psicologica”. L’Iran, in ogni caso, si dice pronto a soccorrere ancora una volta il governo di Damasco.
L’ingresso di Teheran contro l’Arabia Saudita farebbe scattare in modo automatico anche Israele, una variabile di cui non si tiene sufficientemente conto in questo scenario assai complicato. Un coinvolgimento che soltanto i vertici militari e l’Intelligence di Teheran e Damasco sembrano non sottovalutare.
Alessandro Aramu (1970). Giornalista professionista, direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). Per il quotidiano La Stampa ha pubblicato il reportage “All’ombra del muro di Porta di Fatima”, sulla nuova barriera che divide Libano e Israle. È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013), Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria(Arkadia Editore 2014). E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. E’ responsabile delle relazioni internazionali della Federazione Assadakah Italia – Centro Italo Arabo e del Mediterraneo e Presidente del Coordinamento Nazionale per la Pace in Siria.