(Federica Cannas) – Nella sala imponente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il presidente colombiano Gustavo Petro ha sfidato l’ordine mondiale a viso aperto. Con voce ferma, ha denunciato il genocidio in Palestina e ha invocato la creazione di un “esercito di salvezza del mondo” per liberare Gaza. Non un’ennesima risoluzione, non una condanna formale, un esercito, un’azione concreta, un atto di rottura con la diplomazia che troppo spesso si rifugia nell’inerzia.
«Basta parole, è tempo della spada di Bolívar» ha detto. In quella frase c’è tutto il peso della storia latinoamericana, il richiamo a un continente che conosce bene il valore della libertà. Un appello diretto a paesi dell’Asia, dell’America Latina e alle grandi popolazioni slave che sconfissero Hitler, affinché si uniscano contro il potere militare e politico che sostiene l’occupazione israeliana.
Il gesto di Petro va letto per quello che è: un atto di coraggio politico. Perché parlare di genocidio davanti all’ONU, chiamare in causa Stati Uniti e NATO, non è un esercizio di diplomazia radicale. È un salto nel vuoto che può costare caro sul piano delle relazioni internazionali, ma che ha il merito di spezzare la complicità del silenzio.
La delegazione statunitense ha abbandonato l’aula durante il discorso. Un segnale che Petro ha colpito un nervo scoperto. Ha costretto a reagire. Non con repliche ma con la fuga.
Petro ha proposto un’alternativa. Ha chiesto che l’Assemblea Generale, senza la trappola del veto dei membri permanenti, voti la creazione di una forza armata internazionale per proteggere i palestinesi. Un’idea che può sembrare utopica, ma che porta con sé una sfida fondamentale: rimettere nelle mani del Sud globale la possibilità di intervenire laddove l’Occidente fallisce o, peggio, alimenta il conflitto.
Evocare Bolívar significa ricordare che la libertà non cade dal cielo, si conquista. Petro ha scelto di parlare non da capo di Stato isolato, ma come voce di un continente che ha memoria delle dittature, delle ingerenze, delle repressioni. E che ora propone un nuovo asse internazionale, capace di unire paesi spesso marginalizzati nelle logiche del potere mondiale.
Che questo esercito possa davvero nascere è incerto. Ma il valore simbolico del discorso non si misura nei blindati che vedremo domani, bensì nella frattura che ha aperto oggi. Petro ha scardinato l’idea che la diplomazia consista solo in condanne a porte chiuse, in dichiarazioni di principio che si dissolvono dopo poche ore.
La sua voce, con i richiami alla spada di Bolívar e alla resistenza dei popoli oppressi, ha segnato un passaggio storico con la chiamata all’azione. È un linguaggio che l’ONU non è abituata a sentire, un linguaggio che divide, scuote, obbliga a prendere posizione.
Ha preferito rischiare l’isolamento internazionale piuttosto che restare intrappolato nell’inerzia. Non sappiamo se il suo invito troverà risposte, ma sappiamo che nelle piazze, nei movimenti, nei popoli che guardano a Gaza come a una ferita aperta, il suo discorso verrà ricordato come un atto di coraggio raro.
La storia giudicherà se resterà un grido isolato o il seme di una nuova alleanza tra Sud globale e popoli oppressi. Di certo, il 24 settembre 2025 entrerà nei libri come il giorno in cui, all’ONU, un presidente latinoamericano ha osato dire: “Non più parole, ma azione”.



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