(Giacomo Laconi) – Dal 2017 i flussi migratori verso l’Europa registrano una costante diminuzione e il numero di sbarchi negli ultimi anni è nettamente inferiore rispetto al picco raggiunto nel 2015-2016[1]. Con il calo degli arrivi si è ridotto proporzionalmente l’interesse verso il fenomeno migratorio, messo ulteriormente in secondo piano dalle drammatiche conseguenze del COVID 19, che da mesi catalizzano gran parte dell’attenzione delle opinioni pubbliche europee. Tuttavia, i flussi migratori non possono essere considerati una problematica del passato. Le migrazioni tra le due sponde del Mediterraneo costituiscono un fattore strutturale dei Paesi che vi si affacciano, pertanto l’Unione Europea non può trascurare tale fenomeno che è destinato ad accompagnare gli Stati membri ben più a lungo del COVID 19.
I primi mesi del 2020 invitano a non sottostimare il fenomeno migratorio. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), nei mesi di gennaio e febbraio del 2020 il numero di arrivi in Europa è stato di 14.955, rispettivamente il 20% e il 13% in più rispetto agli arrivi registrati nei primi due mesi del 2019 (12.444) e del 2018 (13.167)[2].
Dati ancora più recenti vengono riportati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Fino al 14 aprile del 2020, secondo l’UNHCR, sono arrivati in Europa 20.456 migranti, di cui 17.134 attraverso le rotte marittime e 3.322 con quelle terrestri. I principali Paesi d’arrivo sono Grecia con 9.641 migranti, la Spagna con 6.034, l’Italia con 3.229 e Malta con 1.135[3]. I dati indicano che il maggiore flusso dei migranti si trova nel Mediterraneo orientale, conseguenza dell’aggravarsi della crisi siriana e della decisione turca di aprire il suo confine con la Grecia. La rotta del Mediterraneo centrale sembra seguire l’andamento degli anni precedenti, che vede dal 2017, anno dell’accordo tra UE, Italia e milizie libiche, un continuo calo del flusso verso le coste italiane e quelle maltesi. Al calo della rotta centrale ha fatto seguito invece l’aumento dei flussi occidentali che partono dal Marocco verso la Spagna.
(https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean)
Per quando riguarda i Paesi di provenienza, sempre secondo i dati del UNHCR, nel 2020 l’Afghanistan e la Siria sono i due maggiori Paesi di partenza, ulteriore conseguenza dell’apertura del confine greco-turco diventato oggi il principale canale di arrivo verso l’Europa. Per quanto riguarda l’immigrazione dai Paesi africani, nel 2020 la maggior parte dei migranti proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, dall’Algeria, dalla Costa d’Avorio e dal Sudan[4].
Il recente calo dei flussi permette di guardare al problema senza allarmismi e con lucidità, offrendo una finestra d’opportunità unica per cercare di trovare delle soluzioni sostenibili sul lungo periodo.
Finora l’Europa ha seguito un approccio pragmatico rivolto ad ottenere un consistente calo degli sbarchi nel breve periodo. Le politiche seguite sono state principalmente due. Da una parte, l’UE ha cercato di esternalizzare i suoi confini, cioè ha finanziato gli Stati terzi che si trovano lungo la rotta europea chiedendo a questi di fermare i transiti verso l’UE. Dall’altra, ha stanziato ingenti aiuti allo sviluppo, come il Fondo fiduciario per l’Africa[5], nel tentativo di migliorare le condizioni socio-economiche nei Paesi di partenza e di transito. Entrambe le risposte presentano comunque degli inconvenienti: l’esternalizzazione dei confini rischia di rendere l’UE ostaggio delle politiche migratorie degli Stati terzi, di cui è prova l’uso politico fatto dalla Turchia della questione migratoria, e non assicura la sicurezza e il rispetto dei diritti degli stessi migranti, come dimostra il caso libico. Gli aiuti allo sviluppo, invece, necessitano di molto tempo per creare delle condizioni che disincentivino l’emigrazione.
Nonostante questi difetti, le due misure hanno permesso di ridurre il flusso migratorio verso l’Europa a partire del 2017. Eppure, è lecito pensare che queste misure non siano abbastanza e che si debbano valutare delle soluzioni di lungo periodo. Queste ultime necessitano innanzitutto di una maggiore coordinazione con i Paesi di partenza e di transito, non solo per diminuire gli arrivi ma anche, e soprattutto, per costruire dei corridoi umanitari sicuri e controllati che garantiscano la sicurezza dei migranti e una migliore gestione del fenomeno stesso. Ciò implica che gli Stati europei e la stessa Unione debbano mettere da parte l’apatia mostrata verso gli scenari di crisi in Africa e Medio Oriente. In questo senso, un primo passo sarebbe quello di svolgere un ruolo più deciso nei principali teatri di crisi vicini ai confini europei, come la Siria o la Libia. È chiaro che queste risposte necessitino di una maggiore coordinazione interna alla stessa Unione Europea. Il COVID 19 ha aggravato la distanza tra i Paesi membri e da questo punto di vista rischia di avere ricadute negative anche sulla gestione della questione migratoria. Tuttavia, qualsiasi risposta di lungo periodo non può che essere anticipata da una maggiore coordinazione interna all’Unione, senza la quale una politica migratoria europea è destinata a rimanere utopia.
[1] https://data2.unhcr.org/en/documents/details/74670
[2] https://migration.iom.int/reports/europe-%E2%80%94-mixed-migration-flows-europe-monthly-overview-february-2020?close=true
[3] https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean
[4] https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean
[5] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/MEMO_15_6056